1 - «MANIAC», SERIE TV PER MANIACI DI GRANDE CINEMA
Luca Beatrice per “il Giornale”
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Ha fatto sensazione la muscolare campagna pubblicitaria che ne ha anticipato l' uscita italiana. Già da alcune settimane nelle nostre città campeggiano giganteschi manifesti e billboard di Maniac, la nuova serie Netflix in rete dal 21 settembre.
Una grafica attraente e pop, che fa leva sull' ambiguità del titolo e sulla popolarità dei due attori protagonisti, Emma Stone e Jonah Hill. Va detto subito, bravissimi. Miniserie dunque in dieci episodi, diretta da Cary Fukunaga e scritta da Patrick Somerville, Maniac ha tutti i crismi del prodotto d' autore, ambizioso e complesso, dall' intreccio non semplice, pieno di riferimenti e citazioni, dove il telespettatore è messo a dura prova, se non addirittura alle corde.
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Il ritmo non è il suo forte, la narrazione anti-lineare con quel tipico movimento di andata e ritorno su tempi diversi così in voga nel postmoderno. Difficile incasellare Maniac in un solo genere: è piuttosto il risultato di un nuovo cinema pastiche che ha avuto i suoi riferimenti in Breaking Bad o Black Mirror.
Serie per appassionati dunque, per chi non teme di farsi prendere per mano e farsi guidare in un sogno/incubo psicotico-psichedelico. Il primo riferimento è quello del Michel Gondry, in particolare di Eternal Sunshine of the Spotless Mind (Se mi lasci ti cancello), delirante, assurdo, romantico, strampalato, con quell' estetica da video clip anni '80 che fece conoscere il regista.
Anche l' uso degli attori (lì erano Kate Winslet e Jim Carrey) lo ricorda molto. In effetti il plot si basa sulla loro recitazione: Annie e Owen, i protagonisti di Maniac, si sottopongono a una terapia farmacologica sperimentale al fine di esplorare la mente umana. Entrambi sono tormentati da sensi di colpa, traumi, ricordi dolorosi.
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Entrambi borderline, lei con un' attitudine aggressiva e violenta, lui ai limiti dell' autismo, afasico, lo sguardo fisso di lynchiana memoria e un paio di scarpe dal biancore addirittura accecante. Il loro passato riferisce - ma lo sviluppo della vicenda centellina le informazioni, rallentandone addirittura la nostra conoscenza - di episodi drammatici che bene o male hanno a che fare con la loro storia familiare.
Diventati grandi, incapaci di inserirsi nella società, Annie e Owen, insomma, vorrebbero vivere meglio, almeno provarci: ecco la scelta di entrare nel programma sperimentale che sembra provenire dai film di fantascienza degli anni '70.
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È televisione certo, televisione di oggi, ma per goderne appieno c' è bisogno di conoscere e apprezzare la storia del cinema. Maniac forse non ha tutti gli ingredienti per essere considerato un capolavoro tra le serie, però intriga e cresce.
Consigliato dunque a un pubblico esigente e attento, quasi di nicchia nonostante la massiccia comunicazione che farebbe pensare a un prodotto di massa cui, al contrario, non assomiglia per niente.
2 - PERCHÉ NON RESISTIAMO ALLE SERIE TV
Candida Morvillo per il “Corriere della Sera”
Quando si chiamavano telefilm, «la puntata» si aspettava per una settimana, oggi c' è chi guarda l' intera stagione di una serie tv in una notte e si sveglia a pezzi per «binge watching», che sta per «abbuffata di serie televisive», neologismo inserito nell' Oxford Dictionary nel 2013.
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Era l' anno in cui Netflix dichiarava che gli abbonati impiegavano in media quattro giorni a consumare una stagione di Breaking Bad. Tutto è cambiato nel modo di vedere la tv proprio quando Netflix ha esordito rilasciando le stagioni in un colpo e senza spot, consentendoci di guardare tutto Stranger Things e, nel mentre, dimenticarci che esiste un mondo là fuori.
Ora, le serie complete si trovano ovunque, su Sky, Infinity, Amazon, RaiPlay... È lo spirito di tempi da «tutto e subito». Sul Washington Post, la firma di economia e politica Jeff Guo confessò di aver visto Il Trono di Spade in via accelerata, col fast forward.
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Il critico tv del Guardian Stuart Heritage se l' è presa con chi giudicava Gypsy e Seven Seconds troppo lunghe per essere viste in una seduta e si è scagliato contro «la gratificazione immediata», ricordando che «abbiamo bisogno, a volte, di fermarci e pensarci su».
Macché, uno studio della Syracuse University ha provato che la gratificazione è più forte se si fa l' abbuffata. Sarà per la maggior immersione emotiva, sarà che in mezzo non ci mettiamo distrazioni.
In quest' era che Aldo Grasso, nel suo La nuova fabbrica dei sogni. Miti e riti delle serie tv americane (Il Saggiatore, 2016), ha definito «la Golden Age della serialità televisiva», fermarsi è esattamente il problema.
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Gli episodi sono scritti per impennare la tensione alla fine e spingerci a voler sapere come continua la storia. Rob Potter, direttore dell' Istituto di ricerche sulla Comunicazione dell' università dell' Indiana, ha spiegato all' HuffPost che «il cervello è cablato ai meccanismi di sopravvivenza. Nella savana stavamo all' erta temendo i predatori, ora, finché qualcosa sullo schermo si muove, restiamo sul divano».
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Accade anche altro al cervello guardando Designated Survivor. Spiega al Corriere il neurochirurgo Giulio Maira: «La percezione visiva attiva il lobo occipitale e, se lo spettacolo ci piace, si attiva la dopamina, che media il piacere e che, in eccesso, manda in tilt le aree frontali del ragionamento, come quando ci s' innamora, riducendo la razionalità e spingendoci a ripetere l' esperienza gradevole».
Un celebre studio, uscito nel 2016 su Jama Psychiatry e che ha monitorato tremila persone anche per 25 anni, ha concluso che chi ha guardato molta tv ha risultati peggiori nei test cognitivi. Non tutti, però, ritengono che l' eccesso di televisione istupidisca.
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Il divulgatore scientifico americano Steven Johnson ha sostenuto in un libro (Tutto quello che ti fa male ti fa bene, Mondadori, 2016) che questa tv densa di temi contemporanei rende più intelligenti, perché impone il confronto con complessità nuove.
Blog e social sono pieni di persone che sostengono di aver capito i propri problemi grazie a una serie. L' influencer Lauren Rearick ha scritto che ha compreso la sua depressione più guardando You' re the Worst che in dieci anni di malattia. E una ricerca della sociologa inglese Lesley Henderson ha osservato che le serie sui disturbi mentali aiutano gli spettatori a comprendere il loro disagio.
Spiega al Corriere il sociologo Francesco Pira, docente di Comunicazione all' Università di Messina, «oggi, per dirla con Bauman, la tv è collegata al nostro "giardino perfetto". Con un abbonamento a basso costo e un hashtag su Twitter si entra in microcosmi con analogie di interessi».
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Pira osserva anche che è sparito il rito di guardare la tv in famiglia, ognuno si fa la sua tv sul suo dispositivo. È «la fine della famiglia», stando a un titolo del quotidiano inglese The Guardian. Gli italiani (dati del Report Ericsson 2016) guardano 5 ore al giorno di tv, di cui il 40 per cento on demand.
Sono spesso ore rubate al sonno, con effetti su metabolismo, stanchezza, insonnia. Uno studio belga-americano del 2017 ha certificato che «alle sbornie tv si associa qualità peggiore del sonno nel 32,6 per cento dei casi». E che «le abbuffate inducono di più all' identificazione coi personaggi».
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Chi fa scorpacciate sa che gli può capitare di assumere modi e battute dell' eroe prediletto, o dopo Black Mirror, di vedere pericoli dappertutto. «Pensare come la regina Elisabetta in The Crown può considerarsi normale se non ci rovina la vita», avvisa lo psichiatra e terapeuta Paolo Giovannelli, direttore dell' ESC-center for Internet Use Disorders di Milano e docente alla Statale.
«Frequentare un personaggio più di tre ore a settimana può creare confusione identitaria e, dopo otto ore di visione, contaminati da emozioni via schermo, non scriverei una mail di lavoro né affronterei discussioni coi familiari». Ci sarebbe, poi, anche la depressione da fine-serie, il lutto per l' addio ai personaggi. Il New York Times l' ha battezzata «Post-Binge-Watching Blues».
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Anche se in America alcuni Rehab come la ReStart di Fall City propongono soggiorni De-Tech da serie televisive, l' Organizzazione mondiale della Sanità non classifica disturbi da fiction tv. Spiega Giovannelli: «L' abuso non è una dipendenza in sé, ma si ascrive all' isolamento sociale e può essere la spia di un problema affettivo o personale».
Il trucco per fermarsi in tempo, spiega lui, è guardare gli episodi da metà a metà, mollando nella fase di stanca che precede il «cliffhanger» finale, quel colpo di scena che ci risucchia nella puntata successiva. La regola aurea è che «guardare una serie non deve lasciare sensi di colpa, ma lasciare leggeri».
3 – "NEL MONDO SUPER BIZZARRO DI MANIAC È IL DOLORE AD AVVICINARE LE PERSONE"
Gianmaria Tammaro per “la Stampa”
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Maniac, disponibile in streaming su Netflix, è una delle serie più attese di quest' anno. È diretta da Cary Fukunaga, regista della prima stagione di True Detective e del prossimo film su James Bond, e nel cast ci sono Emma Stone e Jonah Hill. Racconta una storia fatta di dolore e di ossessioni, in cui i protagonisti si offrono volontari per un esperimento farmaceutico. È scritta da Patrick Somerville e dallo stesso Fukunaga, ed è basata sull' omonima serie norvegese del 2014.
La prima cosa che Justin Theroux, attore, produttore e comico statunitense, sceneggiatore di Tropic Thunder , protagonista di Mulholland Drive , Inland Empire e di The Leftovers , ha pensato quando ha letto la sceneggiatura di Maniac è stata: «Stupendo». A chiedergli perché, risponde che è stato per i personaggi, «non solo il mio», e per il cast, gli attori, e per il regista. Ha amato tutto, dice. «Ogni cosa».
Com' è stato lavorare con Fukunaga?
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«È uno dei filmmaker più bravi che conosca. E parlo dal punto di vista estetico, tecnico e artistico. Ci conoscevamo da molto tempo, anche prima di lavorare insieme. Siamo amici. E le dirò: farsi dirigere da qualcuno che frequenti fuori dal set è difficile. È un po' strano vedere un tuo amico sotto un' altra prospettiva. E penso che sia stato lo stesso anche per lui».
Una delle cose più interessanti di «Maniac» è la sua ambientazione.
«È il futuro, ma è anche il passato. È un mondo bizzarro. Molte cose ricordano gli Anni '80, con tutti quei colori, e altre i '90, con i grossi computer, la tecnologia che solo apparentemente è vecchia».
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Lei interpreta il dottor Mantleray, uno dei responsabili dell' esperimento che vede coinvolti i personaggi di Emma Stone e Jonah Hill.
«È una persona con molti problemi, spezzata nell' animo. Fa finta di essere sicuro di sé stesso, ma probabilmente è la persona con meno certezze. Più in generale, tutti i personaggi hanno delle storie complicate, e il mio non è da meno. E quando puoi interpretare un ruolo così, è la cosa appagante del mondo».
Non viene mai mostrato molto del mondo esterno.
«Perché il suo lavoro è la sua vita. È molto ambizioso. Finge di voler aiutare gli altri e l' umanità intera, ma in realtà penso che tutto quello che voglia sia essere famoso».
Ha un rapporto molto complicato con sua madre.
«Il che dice praticamente tutto di lui. Non c' è una vera relazione tra loro due, non c' è simpatia o vera comprensione».
Altra cosa interessante di «Maniac» è il suo non avere un solo genere.
«Dovrebbe essere la fantascienza, ma non mi sembra che sia solo questo. In ogni episodio ci sono tanti generi diversi, e questa forse è una delle cose più belle della serie».
Quale crede che sia il tema principale della storia?
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«Ce ne sono diversi. I medicinali e l' abuso che a volte se ne fa rappresentano solo la superficie. Ma c' è anche la capacità che hanno le persone di avvicinarsi grazie al dolore».
Cosa di cui, in questa serie, tutti hanno paura.
«Pensano che grazie a questa nuova pillola potranno vivere meglio. In realtà, però, sono le relazioni personali quelle che possono fare la differenza».
Crede che storie come questa possano trovare spazio solo in televisione?
Cary Fukunaga
«La serialità è sicuramente il modo migliore per raccontarle, specie se così approfondite e lunghe. Con la televisione si può andare molto più a fondo con i personaggi di quanto, forse, si possa fare al cinema».
Ci sono mai state difficoltà sul set?
«La cosa più importante è stata capire il tono dello show, quello che Cary voleva che venisse fuori. Nella serie c' è anche un umorismo che, leggendo la sceneggiatura, non sembrava così evidente».
E come si è trovato con Emma Stone e Jonah Hill?
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«Emma è una delle donne più simpatiche che conosca. Ha una personalità straordinaria.
E la stessa cosa vale per Jonah.
Nessuno prende così seriamente il lavoro come loro. Ma tra un ciak e un altro c' erano sempre risate. Girare questa serie è stato molto stancante, certo; ma è stata anche una delle esperienze più divertenti che abbia mai vissuto».