enrico vanzina foto di bacco
Malcom Pagani per Vanity Fair
Carlo che si chiude in bagno a quattro anni e non sa più come uscire, Carlo che gioca con i soldatini e nasconde gli incursori sotto al letto, Carlo che assiste al gol di Rivera in Italia-Germania di Mexico ’70 mentre la voce di Nando Martellini riempie la stanza: «4-3, gol di Rivera, che meravigliosa partita ascoltatori italiani!» e Raimondo Vianello esulta al suo fianco, Carlo che ascolta Bob Dylan e i Beatles leggendo Kerouac e sulla strada, a un dato punto, incontra il male, combatte, perde, spera, cade e se ne va. Suo fratello si è ribellato all’inattesa piega degli eventi mettendo sulla pagina, in un libro intimo e rivelatorio, il film della sua vita.
Dice Enrico Vanzina che l’esistenza non è altro che «una finzione tra la voglia di capire e la paura di capire» e che per dare forma a Mio fratello Carlo ha dovuto consegnarsi alla prima e dimenticare la seconda. Una mattina racconta: «Mi sono svegliato e ho deciso che dovevo liberarmi dal dolore. In stato di trance, per 50 giorni, ho scritto la storia di un uomo. Se scrivendo avessi parlato soltanto di Carlo senza mai accennare al suo cognome sarebbe stato identico».
Più che un diario, un romanzo, doloroso e bellissimo che parla di amore alternando ricordo e cronaca, sogno e referti medici, speranza e disperazione, delicatezza e abissi: «Anche se quando tutto sembra finito, finito non è mai. In questo momento lei è seduto sulla sedia di Carlo, sul tavolo ci sono ancora i suoi appunti e se mi impegno riesco a risentire la sua voce, le sue imitazioni, il suo umorismo gentile. Continuo a parlare con lui ogni giorno. Come prima. Accadrà domani e per sempre».
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Scrivere un libro su suo fratello è il tentativo di rendere eterno ciò che eterno non è stato?
«Wilde diceva che nessun uomo è tanto ricco da potersi ricomprare il passato, ma quello che sembra svanire tra le dita in verità è ben saldo nelle nostre mani. Io e Carlo abbiamo vissuto in simbiosi trovandoci a reinventare ogni mattina il presente. Al di là del tangibile, qualcosa è rimasto».
Chi era Carlo Vanzina?
enrico vanzina foto di bacco
«Una persona che ha sceneggiato la sua vita fino a farla diventare un film. Era James Stewart in un affresco di Frank Capra, sapeva voler bene, amava la sua famiglia e il cinema più di ogni altra cosa. Da ragazzo voleva diventare critico: “Così magari mi danno la tessera e entro in sala gratis”. Con Claudio Risi, il figlio di Dino, inforcavano la Vespa e volavano insieme in direzione dell’Euclide o dell’Ambra Jovinelli, verso quei luoghi magici in cui si spengono le luci, all’improvviso si fa silenzio e sul grande schermo scorrono le immagini».
Ora che la luce si è spenta definitivamente a lei che immagini vengono in mente?
«Il sorriso di Carlo. Ottimista per natura e per scelta. Gli piacevano i colori e rifiutava il grigio intorno a sé. “Amo il lieto fine”, diceva sempre, “forse perché nella vita non esiste quasi mai”. Non si prendeva sul serio, Carlo. Nostro padre Steno ci aveva sempre ammonito: “Non operiamo a cuore aperto, facciamo soltanto cinema”».
Cosa significa fare cinema?
«Osservare il contesto e immaginare, misteriosamente e in totale libertà, quel che accadrà domani. Io e mio fratello lo abbiamo fatto per decenni. L’idea che non accadrà più mi fa impazzire. È come se mi avessero tagliato a metà».
È stato difficile parlare di suo fratello raccontando anche la malattia?
enrico vanzina foto mezzelani gmt
«La vita è semplice da descrivere solo quando non c’è niente in ballo. Qui c’era ogni cosa. Ma sulla sua fine, Carlo ha sceneggiato un meraviglioso film drammatico. Fino all’ultimo, era convinto di guarire, sicuro che quel che gli stava accadendo era soltanto il passaggio di una storia universale, che può toccare a tutti. “Io ne esco”, diceva e non aveva nessuna remora nel raccontare agli amici il calvario dei medicamenti, della immunologia, dei consulti, delle speranze che prima volano e poi precipitano. D’altra parte, con la medesima capacità di negare il dramma, Carlo aveva accolto la notizia della morte di nostro padre. Non voleva considerare che non ci fosse più, non riusciva ad ammetterlo a se stesso perché non accettava la tristezza. La morte di papà non era il film che voleva vedere: “Voglio parlarci, devo parlarci”, mi diceva. Ma papà non c’era più».
enrico vanzina
Quando seppe che Carlo stava male?
«La prima volta? Nel 1992. Mi telefonò mentre con i membri della commissione stavamo decidendo chi ammettere al Centro Sperimentale di Cinematografia. “Ho fatto dei controlli”, disse, “temono sia un melanoma”. Non avevo idea di cosa fosse: “È un cancro, uno dei peggiori”. Tutt’a un tratto mi sentii malissimo. Provai a reagire. A uno degli esaminandi chiesi se sapesse chi era Rossellini, poi prima che il ragazzo rispondesse, iniziai a piangere».
Dopo cosa accadde?
«Accadde una specie di miracolo. Carlo si curò e poi il male si arrestò. Per venticinque anni. Giorni guadagnati, anni di felicità».
Le date in questa storia hanno la loro importanza.
«Carlo era nato a Roma il 13 marzo. Esattamente 37 anni prima che nello stesso giorno morisse mio padre. Da quel 13 marzo 1988 non abbiamo più festeggiato il suo compleanno. Pensavo che papà fosse morto giovane, a 71 anni, Carlo non ci è arrivato. Già malato, sognava piccoli traguardi che erano solo una maniera di irridere il destino: “Mi mancano solo dieci film per raggiungere quelli di Steno, dici che riuscirò a superare papà?”. Non ci è riuscito».
in ricordo di carlo vanzina 1
Nel suo libro la durezza dà la destra alla poesia.
«Se accade è perché Carlo sapeva vederla. Aveva sempre amato il mare, si fermava incantato, a guardarlo per ore. “Come si fa a spiegare il mare a chi lo guarda e vede solo uno specchio d’acqua?”».
Cosa vede oggi Enrico Vanzina nei riflessi di ieri?
«Le differenze che cementano un’unione. Io e Carlo non avremmo potuto essere più diversi, eppure ci amavamo. Lui timido, preciso, animato da una delicata malinconia. Io fastidiosamente estroverso, confusionario, sempre pronto a ridere facendo rumore».
enrico vanzina e gigi proietti
Chi o cosa faceva ridere Carlo Vanzina?
«A comando, quasi per automatismo, riusciva nell’impresa solo Gigi Proietti. Iniziava con una barzelletta e a quel punto veniva giù anche la pudica continenza di Carlo. Accadeva con Gigi e forse allo stadio. Era tifoso della Roma. In tribuna gli rideva il cuore. Andammo a vedere insieme la semifinale di Champions League con il Liverpool e Carlo stava già malissimo. Un involucro con gli occhi vispi e il corpo assente. Ci abbracciammo dopo un gol, sentii le ossa e all’improvviso ebbi paura. C’è un filmato di quella serata, girato con il mio telefonino. In mezzo alle bandiere c’è Carlo che canta. Credo sia l’ultima immagine, l’ultimo video che ho di lui».
enrico vanzina con la moglie
Rimane tutto il resto.
«Non sempre lo voglio ricordare. Del suo ultimo mese ho in testa un groviglio di tubi, di flebo, di martirio. Fu un mese infelice in cui mi separai persino da me stesso. Come aveva scritto quel genio di Marcello Marchesi, il mio padrino di battesimo: “Non ho caldo. Non ho freddo. Non ho sonno. Come sono infelice”».
Non ci si arrende mai all’idea di abbandonare un fratello.
«Sempre Marchesi, che era una miniera di saggezza, diceva: “Speriamo che la morte ci trovi vivi”. Per non perdere la rotta e sopravvivere alla scomparsa di Carlo ho dovuto scrivere di lui. Anche il suo necrologio, quand’era ancora in vita, per un funerale che credevo si sarebbe svolto poche ore dopo e che invece il destino scelse di rimandare. Carlo avrebbe fatto lo stesso con me. Il cinema insegna che le scene bisogna immaginarle prima che vengano realizzate. È un modo per esorcizzare la realtà, per renderla meno agra».
La vita di Carlo non lo era stata.
«Per niente, ma sarebbe stato sciocco e disonesto negare che, come tutti, anche Carlo aveva delle fragilità e proprio nelle fragilità era stato grandioso. Anche nella malattia. Somerset Maugham, che la sapeva lunga e che alla vita sapeva guardare con l’ironia che allevia anche le ferite più profonde, diceva: “La morte è un brutto affare, il mio consiglio è non averci niente a che fare”.
il pranzo della domenica
Carlo si è trovato di fronte alla morte e per non cederle il passo l’ha affrontata con un coraggio che forse io non avrei avuto. Io mi sono trovato di fronte alla scomparsa della mia metà, alla dipartita della persona con la quale avevo deciso di condividere tutto e ho cercato di mostrare cosa accade in una famiglia quando si manifesta un dolore. È accaduto a tutti, non c’è scampo, ma il ricordo di Carlo vuole essere un dono per infondere coraggio a chi soffre».
le finte bionde
L’ha scritto per questo in fondo?
«Mio padre era un ottimo amico di Ennio Flaiano. Lo incontravamo da piccoli in quella sorta di arca del talento letterario che da Leo Longanesi a Ercole Patti, fino a Mario Soldati era casa nostra e lo rividi da adulto. Tradito dalla confidenza azzardai e gli rivelai che da grande avevo deciso di fare lo scrittore. Fu spiritoso e mi disse che avendo la fortuna di avere di fronte uno scrittore avrei potuto fargli una domanda sul mestiere. Mi schermii e poi, balbettando, la domanda la feci davvero».
Quale domanda?
«Apparentemente, una domanda da Candide. Ma a ripensarci, in verità, una domanda gigantesca. Gli chiesi: “A cosa serve scrivere?”. Sull’ilarità generale del gruppetto calò un silenzio grave. Ennio attese qualche istante e poi sibilò: “A sconfiggere la morte”».
vacanze di natale
Opinabile, ma bellissimo.
«Non ho scritto questo libro perché sia venduto, ma l’ho scritto per me. Per tornare alla purezza del sentimento che nutro per Carlo. Nel percorso esistenziale di due fratelli, qualche piccola discussione o screzio c’è sempre, ma nell’addio svanisce tutto e torni all’essenziale. Sa qual è stato il momento più felice della nostra vita insieme? Il momento in cui abbiamo capito che eravamo una cosa sola? La grande celebrazione di nostro padre alla Galleria d’Arte Moderna di Roma.
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Carlo non lo trovavi mai, era sempre impegnatissimo. Non è che non volesse ricordare, gli mancava proprio il tempo. In quell’occasione diede tutto se stesso nell’organizzazione perché si rese conto che farlo era importante e che la nostra vicenda umana era parte di una storia che era iniziata molto prima di noi e sarebbe continuata anche dopo. Quel giorno, davanti a migliaia di persone in pellegrinaggio laico, io e Carlo ci guardammo negli occhi. “Papà sarebbe stato contento”, mi disse e dentro gli brillava qualcosa».
Avete lavorato insieme a decine di film, fatto incassare centinaia di milioni di euro ai produttori, convissuto con il pregiudizio della critica, assistito al revisionismo della stessa.
«Carlo, che da fratello minore aveva dovuto rincorrere fin dall’inizio la vita partendo per età da una posizione svantaggiosa, si era rifatto con gli interessi lavorando sul set fin da quand’era minorenne. Critica a parte, anche sul piano degli incassi, al principio non andò tutto bene. Per Figli delle stelle, il suo secondo film, andammo carbonari fuori dal cinema Empire. In fila c’erano tre persone e, in mezzo a loro, Aurora Santuari, spietata critica di Paese Sera. Carlo la prese a ridere: “C’è la Santuari, è meglio che torniamo a casa”. A casa andò quasi peggio. A tarda sera ci telefonò un esercente di Cagliari: “Signori, a vostro modo avete battuto ogni record, allo spettacolo delle otto di sera in sala non c’era neanche uno spettatore”».
enrico e carlo vanzina con steno
Poco dopo il pubblico vi ripagò.
«Con gli interessi, mentre con la critica il rapporto nei primi anni fu buono e divenne poi difficile con l’avvento prima dell’edonismo craxiano e poi di Berlusconi. Venivamo identificati tout court con la fauna che descrivevamo, come se nelle nostre satire feroci sulla decadenza della borghesia ci fosse totale aderenza e non ironica rappresentazione o distanza abissale tra l’oggetto della nostra feroce presa per il culo e l’osservazione».
alberto sordi con carlo e enrico vanzina
Ci restavate male?
«Eravamo vaccinatissimi. Papà in fondo aveva esordito con le ovazioni di Cannes per Guardie e ladri ed era finito a fare film popolari. Io e Carlo ci arrabbiavamo soltanto se dalla critica si esondava sul personale. Una volta Mereghetti, con il quale oggi ho ottimi rapporti, scrisse una cosa sgradevole e gratuita. Lo cercai. Non lo trovai. Gli mandai a dire che se lo avessi incontrato, come si dice a Roma, gli avrei menato. E il brutto è che lo avrei fatto davvero».
Enrico Vanzina, il ragazzo cresciuto sulle ginocchia di Longanesi e Ugo Pirro?
carlo vanzina luca cordero di montezemolo
«Chi di noi non ha una parte coatta? Poco dopo, quasi subito, mi vergognai di quell’atteggiamento e chiesi scusa a Mereghetti. Continuiamo quasi sempre a non essere d’accordo, ma coltiviamo ottimi rapporti».
Un riflesso dell’educazione borghese?
«Forse solo della carta di identità. Siamo due vecchietti. Gente venuta su in altre epoche. In altri tempi, meno ignoranti e barbari. Guardi la politica. Oggi ci manca persino Berlusconi. Rispetto ai contemporanei, Silvio sembra uno statista».
Ora che ha scritto il libro, come si sente?
«Come uno che ha fatto l’azione più giusta che potesse fare. È un libro sull’amore, sull’amicizia, sul mistero della speranza, sulla fratellanza e sulla famiglia. È una cosa che dovevo fare. La migliore della mia vita».
giovanni malago carlo vanzina camilla morabito franco mariotti lisa vanzina (1)
steno con i figli carlo ed enrico vanzina steno con i figli carlo ed enrico vanzina