Niccolò Zancan per “la Stampa”
Duecento chilometri possono fare la differenza. Come è nata l’idea? «Soffrendo», dice la professoressa Renata Dymler, una signora alta e magra, con i capelli argentati e un pile colorato. «Guardavo le immagini che passavano in televisione e stavo male fisicamente. L’Ungheria non può essere Europa. Mi rifiuto di accettarlo. Quello che hanno fatto ai profughi è una vergogna. Non ci sono altre parole».
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Ecco perché, soffrendo, la signora Dylmler ieri mattina alle sette, è salita in auto per andare ad accogliere i rifugiati alla stazione di Vienna, la sua città: «Ma c’era già tanta gente ad aspettarli. Era pieno di persone che stavano dando un contributo. Ho sentito del convoglio in partenza per Budapest e mi sono unita».
Duecento chilometri di autostrada, un solo passeggero a bordo: questa era l’unica regola richiesta. Lasciare spazio a chi ne avesse davvero bisogno. Posti macchina come una specie di ponte umanitario. Andata e ritorno. Per prendere in Ungheria tutti quelli che stanno cercando di raggiungere l’Austria, la Germania e il Nord Europa. Quelli in fuga dalla guerra in Siria. Quelli in fuga anche dal trattamento «vergognoso». La giornalista Iga Mazak dice che è stata una scelta logica, obbligata: «Cos’altro potevamo fare? Sabato ne abbiamo parlato ancora su Facebook. Ci siamo dati appuntamento domenica mattina».
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RISCHIANO L’ARRESTO
Trecento auto, trecento volontari. Alcuni arrivati dalla Germania. L’hanno chiamato il «convoglio della solidarietà». Andatura lenta, per non perdersi nel traffico, un’auto dietro l’altra. Li hanno messi in guardia: «Rischiate l’arresto per traffico di essere umani». Ecco la risposta dell’agricoltore Kurto Wendt, uno degli organizzatori: «Devono essere folli, se ci arrestano perché aiutiamo persone che hanno deciso volontariamente di venire in Austria». La cosa più bella è che stavano andando incontro a una città diversa.
Alla stazione Keleti di Budapest, il simbolo della frustrazione dei profughi, erano arrivati altri ragazzi, altri professori, altre persone che volevano fare la differenza. C’era, per esempio, Cserna Lili, 22 anni, ungherese, studentessa di Lettere e aspirante attrice, in piedi davanti a una colonna, timida e bella, con un cartello con sopra scritto: «Go Free Wien». Anche lei era pronta a partire. Aveva chiesto l’auto in prestito al padre: «Mi sembrava l’unica cosa giusta da fare».
LA FESTA IN STAZIONE
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È successo qualcosa. Dove migliaia di profughi stavamo sbattuti sul pavimento in mezzo ai rifiuti, sono comparsi vestiti e giocolieri, pennarelli e mappe del mondo, cibo, scarpe, spazzini volontari, tazze di caffè caldo. A Keleti si gioca a calcio, si dipinge, si sogna. Si incontra l’italiana di Roma, Elisa Ruggeri, studentessa di Veterinaria, che porta il suo glossario scritto per i rifugiati, un foglio con tutte le traduzioni necessarie per capire cosa sta succedendo: leggi, possibilità, fregature.
E dietro a lei, con un enorme canestro pieno di panini nella carta stagnola, c’è Octavia Andrae, 18 anni, da Amburgo, studentessa di Medicina. Pane e parole. Nel giro di un giorno, un’altra stazione. A metà pomeriggio, quelli di Vienna e quelli di Keleti si sono infine incontrati. Intorno, era pieno di profughi.
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Il primo ministro Orbàn, dopo aver chiuso stazioni e alzato muri, ha scelto di lasciar partire chi ha il biglietto. Alle 17 c’era una lunga coda per salire sul treno per Monaco. Ma già altri migranti stavano arrivando. La nuova Keleti accoglieva tutti, a dispetto delle parole dell’arcivescovo ungherese Peter Erdoe: «Non possiamo fare quanto ci chiede il Papa, perché accogliere potrebbe essere qualificato come illegale, in quanto traffico di esseri umani».
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Il convoglio dei rifugiati si è diviso. Quaranta auto hanno proseguito il viaggio verso il confine con la Serbia, verso Röske, dove c’è il primo incontro fra i profughi e la polizia ungherese. Tutti gli altri hanno parcheggiato vicino a un parco, a cinque minuti dalla stazione Keleti. Nella luce del tramonto, la professoressa Dymler stringeva la mano di Hasan Allulu da Aleppo, Siria, uno dei quattro passeggeri della sua utilitaria: «Ci fermeremo alla frontiera per rendere possibile l’identificazione da parte del governo austriaco. Stiamo solo cercando di accorciare il viaggio a questi ragazzi».
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È stata una di quelle serate caotiche, piena di vita e di abbracci. A un certo punto, è comparso l’avvocato d’affari Lazlo Szlavanitis, ungherese di Budapest, con i mocassini eleganti e un morbido maglione rosso: «La gente di questo Paese non è uguale al suo governo. Sono qui perché lo considero un dovere umanitario». Ed è così che «il convoglio della solidarietà» è tornato indietro più affollato di quando era partito.
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