Alessio Lana per il “Corriere della Sera”
FORTNITE
A detta dei genitori, i figli hanno smesso di mangiare, dormire e lavarsi perché troppo presi da Fortnite. E avrebbero pure speso un fiume di denaro. «È come la cocaina», dicono. Anzi, «come l'eroina», e su queste basi un giudice canadese ha accettato dopo tre anni una class action contro uno dei videogiochi più diffusi di sempre, con oltre 350 milioni di giocatori.
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Per chi l'ha provato, questo «sparatutto» è molto avvincente. Porta il giocatore all'interno di un'arena in cui sfidare fino a 99 avversari, un «tutti contro tutti» adrenalinico in cui si corre, ci si nasconde e si spara con un unico obiettivo: rimanere l'ultimo in vita. Copre ogni piattaforma, dallo smartphone alle console passando per il Pc e la sua portata globale permette di trovare sempre degli avversari connessi online.
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È poi gratuito (ma con pagamenti che consentono personalizzazioni e finora hanno incassato 7,3 miliardi di dollari) e, nonostante il tema, non è violento. Anzi è colorato, «fumettoso» e ciò ne ha decretato il successo anche tra i più piccoli, che spesso lo giocano in famiglia.
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Ecco, la famiglia. La causa contro lo sviluppatore Epic Games e la sua sussidiaria canadese era partita nel 2019 proprio da un gruppo di genitori che avevano denunciato una «gravissima dipendenza» da parte dei figli. Da una parte c'è il tempo trascorso davanti allo schermo, con un tredicenne che sarebbe passato da poche ore a settimana fino a ben 7.700 ore in meno di due anni (un anno ha 8.760 ore). Dall'altra ci sono i soldi spesi e qui il caso esemplare è un bambino di 10 anni che ha sborsato quasi 600 dollari.
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La mossa ha funzionato. Il giudice ha stabilito che la class action non è «frivola o manifestamente infondata» e «che c'è una questione seria da discutere, supportata da accuse sufficienti e specifiche sull'esistenza di rischi o addirittura pericoli derivanti dall'uso di Fortnite». Insomma, può procedere, e ora si duellerà in aula. I querelanti si stanno muovendo in una direzione precisa: paragonano i videogiochi al tabacco (che a differenza delle droghe pesanti crea dipendenza ma è legale) e alle azioni intraprese contro i colossi delle sigarette.
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Una posizione avallata dal giudice: «L'effetto dannoso del tabacco non è stato riconosciuto o ammesso dall'oggi al domani», ha detto. Non ritiene che Epic Games abbia creato deliberatamente dei meccanismi di dipendenza ma ciò «non esclude che ideatori e distributori non lo sapessero».
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La linea difensiva è desumibile dalle dichiarazioni di Epic Games. La società dice di fornire ai genitori controlli parentali «leader di settore» per supervisionare l'esperienza digitale dei figli, di offrirgli rapporti dettagliati sul tempo trascorso a giocare e di richiedere il loro permesso prima di approvare una transazione. Annuncia quindi di voler «combattere in tribunale». La causa cade in un momento cruciale per il gaming , in questo 2022 in cui l'Oms ha riconosciuto la dipendenza da videogiochi come patologia mentale.
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Eppure gli esperti consigliano rimedi semplici ed efficaci per arginarla. Bisogna sorvegliare i piccoli quando giocano, controllare i loro svaghi (i videogame hanno sempre un'età consigliata: per Fortnite è dai 12 anni) e per quanto tempo. Tutti i dispositivi hanno controlli parentali che li bloccano quando si supera una soglia temporale decisa dagli adulti. Insomma, come ogni piacere della vita non è il caso di demonizzare i videogiochi tout court ma l'uso (o l'abuso) che se ne fa.