Gianluca Marziani per Dagospia
Un milanese a Roma e un romano a Milano: impossibile lasciarmi sfuggire una concomitanza museale che lega le traiettorie di due architetti ad alta sensibilità pittorica. Il vostro marziano ha visitato le mostre di Aldo Rossi al Maxxi (a cura di Alberto Ferlenga) e di Carlo Aymonino alla Triennale (a cura di Manuel Orazi, catalogo Electa), promosse dalle due istituzioni nazionali che fanno il punto museografico sui migliori architetti della storia italiana.
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Noi alieni, vorrei chiarirlo, non siamo abituati ad un’edilizia che è frutto di intuizioni a matita, appunti a pennarello, evocazioni ad olio o acrilico; invece voi, cari terrestri dalle mille risorse, avete inventato l’architettura partendo dal “grado lapis” della domus, tracciando perimetri grafici tra funzione e bellezza (pensiamo agli esiti cristallini del sasso materano, della casa strombolana, del trullo pugliese, della masseria, della malga ma anche del vespasiano, dell’acquedotto, del colonnato, delle catacombe, dei sistemi fognari…), disegnando su muri e fogli (pensiamo a due artisti “architetti” come Raffaello e Michelangelo o a due architetti “artisti” come Bernini e Borromini) la coscienza alchemica e illusionistica della futura architettura civile.
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Aymonino e Rossi, due giganti del Novecento, provengono dalla radice vasariana che inventava la prospettiva mentre disegnava i codici del vivere moderno, delle arti liberali, della polis tolemaica in un mondo di realismi e magie. I loro sguardi italiani, prima di conformarsi alle ragioni del committente, coglievano la primavera del fanciullino ottico, la fioritura di echi abitativi che avevano la caverna e la tenda nel proprio codice sorgente. D’altronde, tutti i grandi architetti sono partiti dalle unità elementari del riparo, da una grotta che contenesse l’essenza del nucleo tribale.
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Da quella semplice ovulazione tecnica ha preso forma, secolo dopo secolo, la complessa vicenda delle architetture che disegnano il paesaggio, sperimentando le molteplici variazioni degli archetipi secolari. Oggi si aggiunge la tecnologia per ampliare il potenziale ingegneristico; il digitale partecipa al costrutto di sogni vivi, tra sfide alla gravità e rivoluzioni chimiche, combinazioni quantiche e intelligenze artificiali. Basti pensare a Zaha Hadid e Frank O. Gehry, i due “scultori” più puri dell’architettura contemporanea, occhi radicali che hanno immaginato l’architettura prima della caverna e dopo il verticalismo, formalizzando l’ombra solida dell’acqua e i volumi liquidi del parco onirico.
Aldo Rossi e Carlo Aymonino sono stati due maestri: e su questo abbiamo abbondanza testimoniale per affermare una solidità che li proietta nell’eden delle anime luminose. La cosa che ogni volta mi emoziona è rivedere i loro disegni, le pitture giovanili, quel modo pittorico di immaginare l’immagine di una costruzione.
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Mi colpisce la loro fedeltà atipica alle avanguardie, la magia quasi infantile con cui si esercitavano sul quadro; al contempo, non mi sfugge quel tratto da “traditori” del codice pittorico, forse dettato dalle attrazioni per il volume in scala reale, per una trasposizione del sogno nella dimensione dello spazio fisico. Entrambi si avvicinavano timidi al Futurismo, alla Metafisica, al Realismo di Scuola Romana per poi creare esili fratture, crepe iconoclaste con cui dichiaravano la loro appartenenza genetica ad uno “sguardo altro”. Che per entrambi sarebbe stato, con risultati diversamente notevoli, lo sguardo dei DISEGNATORI D’ARCHITETTURE. Coloro che, come detto, non immaginano una costruzione ma immaginano l’immagine di una costruzione.
carlo aymonino
Carlo Aymonino (Roma, 1926-2010) e suo cugino Carlo Busiri Vici frequentavano il giro artistico romano dell’immediato dopoguerra. Dal 1947 furono diverse le occasioni d’impegno tra organizzazione di mostre, partecipazioni in prima persona e frequentazione di altri artisti, da Renato Guttuso a Renzo Vespignani, da Scipione a Mario Mafai. In una delle ultime interviste Aymonino disse: “Il disegno serve per esprimersi, è come costruire un edificio o una città. Io potrei però fare a meno di scrivere ma non di disegnare, perché disegnare significa entrare direttamente nel mondo della figurazione architettonica, cosa che tra l’altro può fare solo l’architetto. Il disegno permette di misurare, di inventare, di capire attraverso le forme il mondo che ci circonda.”
carlo aymonino
Aymonino si è prima goduto il limbo giovanile, poi ha scelto la via accademica che fu, appunto, l’Architettura ma senza disperdere il patrimonio d’ispirazione, i legami umani, le attrazioni fatali per l’arte visiva. Per lui la creazione di una scena pittorica definiva non solo il futuro edificio ma anche le sue narrazioni, la vita onirica, il testo poetico. Gli edifici dipinti ricreavano la chimica del tempo perduto, della malinconia metafisica, del galleggiamento surrealista, in cerca di uno spazio oltre il nostro spazio, di un tempo oltre il tempo cronologico.
Primo esempio: il Teatro di Avellino. Qui l’architetto aggrega mitologie, classicità moderna, razionalismi, spunti metafisici, geometrie da Superstudio: il risultato del disegno è un distretto da città polifunzionale che condensa ma non confonde, un luogo platonico che somiglia ai distretti culturali europei, ad alcuni siti asiatici In cui la gentrificazione esalta le nuove abitudini culturali, polarizzando le discipline senza dimenticare l’improvvisazione, la performance continua, la condivisione inclusiva.
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Secondo esempio: Complesso Residenziale Monte Amiata nel quartiere Gallaratese a Milano. Una tecnica mista del 1971 mostra una sezione del complesso e aggiunge due figure arcaiche, una ragazza e un guerriero. Il disegno ha uno spirito neoclassicista e un costruttivismo caldo che passa per Alberto Magnelli, il minimalismo americano, Carlo Carrà e altre correnti avanzate del momento.
Terzo esempio: School Campus a Pesaro. Il disegno dell’atrio interno chiude la geometria dello spazio dentro un perimetro che è la geometria prospettica dell’occhio pittorico. Un atto che decreta una microscopica distonia tra l’artista e l’architetto: ed è in questo minuscolo movimento che il bozzetto si astrae dal committente, librandosi nell’aria veggente, “filmando” il reale con occhio astratto, intuendo la compresenza tra progresso significante e memoria necessaria.
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Aldo Rossi (Milano, 1931-1977) ha sempre annodato il profilo del teorico con quello dell’architetto operativo, usando un collante che sussiste e resiste: il disegno e sua figlia la pittura. L’apoteosi della sua creatività purissima, dove il progetto fondeva scultura e Land Art, si chiama Teatro del Mondo, un’illuminazione che lo portò a costruire un teatro galleggiante per una prosa nomade, sorta di metafora terraformabile per ricreare sul palco le migrazioni culturali delle antiche genti mediterranee.
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Quella torre sull’acqua divenne un’attrazione a Venezia (presentata per la Biennale del 1980) ma non fu mai sviluppata come formula di teatro (in)stabile per migrazioni culturali, antidoto a motore per spostare la speranza tra le persone e non persone senza speranza. Oggi rimangono molti documenti di quella magnifica utopia, in particolare i disegni e le pitture dove la torre ritrova il suo parcheggio metafisico tra muse inquietanti, pavimenti a scacchiera, archi classici e altre intuizioni ferraresi. Rossi ha chiaramente giocato con la Metafisica italiana, citando di continuo le forme sospese di Alberto Savinio, Carlo Carrà e, soprattutto, Giorgio de Chirico. Nella pittura di Rossi quel Teatro gioca con la citazione per riportare l’architettura al suo lapis originario, ai princìpi morali dell’essenza abitativa, ad un contenitore che si fa contenuto sensibile.
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Al Maxxi si scorre lungo il nastro visivo delle pareti, captando quadri che si sganciano dalle tavole più tecniche. Sono disegni e pitture con una luccicanza che racconta un autore da camera, circondato da assoli temporali che precedono e seguono ogni costruzione. Paesaggi su carta che abitano la materia cromatica mentre seguono la mano in libertà vigilante. Eccola, la mano che osserva e mastica intuizioni, disegnando gli edifici che ogni bambino sogna quando scende dall’albero. Eccola, la vertigine di un architetto che ha raggiunto la semplicità dopo il lungo viaggio nella conoscenza. La Metafisica di Aldo Rossi, in fondo, era il sogno ad occhi aperti di un pittore che costruiva il suo mondo ideale.
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