Andrea Galli per www.corriere.it
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Complici, non amici. Forse dipendenti uno dall’altro, perché Anthony Gregory Fusi Mantegazza aveva un tugurio e dei posti letto mentre Hamza Elayar coltelli e soldi, e l’appartamento disastrato dell’italiano 21enne, figlio di una famiglia sfasciata da tempo, serviva per nascondere il marocchino di 27 anni dopo le scorrerie e tenergli un angolo sicuro: in fondo, è un irregolare pregiudicato che doveva essere espulso.
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Complici, non amici, e forse pianificatori dell’agguato di venerdì sera sul treno regionale della linea Milano Cadorna-Varese Nord. Un’azione che sembra sia stata coordinata, definita nei ruoli: Elayar ad aggredire, Fusi Mantegazza a sorvegliare che non arrivassero il controllore e altri passeggeri, e forse ad attendere il proprio turno.
La dinamica
Il treno procedeva verso la stazione di Venegono Inferiore. Quando è successo questo, come da verbale di denuncia alla polizia ferroviaria della prima vittima, una 22enne italiana, di professione impiegata, verbale contenuto nel provvedimento di fermo della Procura di Varese e letto dal Corriere: «Ero da sola e stavo al telefono con mio padre. Sono salita subito al piano superiore di una carrozza, verso la coda. C’era un ragazzo seduto che però è sceso alla fermata successiva. Mi sono seduta e poco dopo, avendo notato il controllore al piano di sotto, mi sono alzata, sono scesa e gli ho chiesto informazioni su una fermata del treno.
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Poi sono risalita e sono rimasta in piedi, camminando lungo il corridoio e continuando a parlare al telefono con mio padre. Avevo intanto tolto il giubbotto appoggiandolo allo schienale del sedile dove mi ero accomodata. Mentre camminavo, stavo guardando verso il finestrino e mi sono resa conto che, mentre il treno era fermo nella stazione di Tradate, è salito un ragazzo con una bicicletta.
Il ragazzo era alto circa 170 centimetri, corporatura esile, e indossava un cappello di quelli con la visiera; indossava un paio di occhiali, carnagione chiara, e avrà avuto circa 20 anni». L’identikit di Fusi Mantegazza.
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L’aggressione
«Subito dietro, ho visto arrivare di corsa un secondo ragazzo che è salito proprio mentre le porte si stavano chiudendo». Ovvero Elayar. «Ho poi continuato la mia conversazione telefonica e dopo qualche minuto ho visto che il ragazzo con la bicicletta era salito al piano di sopra, dove in quel momento non c’era più nessun altro passeggero. Ho visto che il ragazzo ha lasciato la bicicletta vicino alla scala ed è rimasto fermo in quel punto.
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Dall’altra parte, utilizzando l’altra scala, è invece salito il secondo ragazzo che ha iniziato a camminare dietro di me. Ero sempre al telefono con mio padre, però mi sono resa conto che i due tra loro stavano comunicando sia con gesti che a parole. Questo secondo ragazzo che era salito da poco, mentre mi camminava di fianco mi si è avvicinato e mi ha tolto una delle cuffiette che avevo nelle orecchie. Inizialmente ho creduto che, avendomi vista agitata volesse tranquillizzarmi, anche perché mi ha fatto con la mano il gesto di stare calma.
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Approfittando del fatto che io ero di spalle mi ha preso da dietro mettendomi una mano sulla bocca per non farmi urlare, e con l’altra mi ha afferrato la testa spingendomi verso l’altro ragazzo, che con la bicicletta stava di fatto bloccando la scala che mi avrebbe permesso di scendere al piano di sotto... Mi ha buttato la bicicletta contro le gambe immobilizzandomi…».
La seconda vittima
A fornire elementi descrittivi di Elayar è stata la seconda vittima. Ugualmente ventenne, era seduta nella sala d’attesa della stazione di Venegono Inferiore. I due predatori sessuali hanno cercato di violentarla, dopo aver lasciato il treno a bordo del quale aveva stuprato la prima ragazza.
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Eccolo, Elayar: «Meno di trent’anni, barba incolta, pelle chiara, occhi scuri, magro ma piazzato, aveva un cappello di lana tipo cuffia, non scuro ma credo blu chiaro, ed era alto un metro e ottanta/ottantacinque. Puzzava di birra. Vestiva un giubbotto scuro. Era sicuramente marocchino».
La festa dopo la violenza
Di nazionalità marocchina erano altri balordi partecipanti, insieme agli stupratori, a un festino nell’appartamento di proprietà di un sudamericano. Disturbato dai rumori, un ulteriore marocchino, vicino di casa, aveva chiamato le forze dell’ordine.
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La sua telefonata ha innescato la scoperta e il fermo di Fusi Mantegazza ed Elayar. Il vicino accetta di parlare col Corriere: «Sono in Italia da una vita, mi considero nato qui. Lavoro, e al lavoro tengo parecchio. Questa gente — intendo tutti i perditempo che girano intorno all’abitazione — non mi piace: non rispettano le regole, non rispettano il prossimo. In sincerità: i due li terranno dentro o a breve tornano liberi?».