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Giuseppe Scarpa per “il Messaggero”
Se al figlio non va di lavorare, i genitori non hanno alcuna responsabilità nei suoi confronti. La Cassazione in una sentenza dell'11 novembre ha scritto un verdetto storico anti bamboccioni. L'occasione per prendere questa decisione è nata in seguito alla denuncia di una donna, una 39enne estetista. La signora ha puntato il dito contro il padre.
Questa la premessa, la figlia era economicamente non autosufficiente e non riusciva a trovare un lavoro che la soddisfaceva. Quindi doveva essere il genitore a sostenerla. L'uomo, un pensionato, nel 2013 ha attraversato un momento di crisi, la separazione dalla moglie e dal tetto coniugale. Il pensionato si era ritrovato così a dover vivere con 1200 euro di pensione, a cui doveva sottrarre un affitto da pagare.
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In questo quadro già complicato le richieste della 39enne, 800 euro al mese da sommare ai 900 da corrispondere alla moglie. La reazione del padre, schiacciato dalle mille spese, è stata quella di consigliarle: trovati un lavoro. Un suggerimento male accolto dalla 39enne. La donna ha risposto portando il padre in tribunale. Da qui è nata un lunga battaglia giudiziaria.
LA QUERELLE GIUDIZIARIA
I giudici di Roma, nel 2014, hanno dato ragione alla figlia, ma non alla moglie, che ha richiesto l'appello. I giudici di secondo grado hanno affermato che nulla era dovuto alla consorte. Tuttavia la figlia doveva ottenere una paghetta di 300 euro al mese, oltre al 50% delle spese mediche sostenute, potendo anche usufruire dell'appartamento in cui viveva con la madre.
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Secondo i magistrati infatti la ragazza non era economicamente indipendente. Alla fine è arrivata la Cassazione con una sentenza che ha ribaltato i precedenti verdetti: «Il figlio divenuto maggiorenne ha diritto al mantenimento a carico dei genitori soltanto se, ultimato il prescelto percorso formativo scolastico, dimostri () di essersi adoperato effettivamente per rendersi autonomo economicamente, impegnandosi attivamente per trovare un'occupazione in base alle opportunità reali offerte dal mercato del lavoro», sottolineano i giudici.
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LE MOTIVAZIONI
In pratica «i giudici di Appello avevano omesso di considerare la titolarità dell'abilitazione professionale, il rifiuto dell'impiego presso il padre e delle offerte di lavoro, pure confessate dalla figlia, sentita in primo grado». Bisogna però specificare un aspetto: non basta, secondo la corte, che i figli abbiano compiuto 18 anni per essere considerati autosufficienti.
La famiglia ha un obbligo nei confronti dei figli, mantenerli «là dove, senza colpa, siano ancora dipendenti dai genitori». Perciò è necessario prendere in considerazione il completamento del percorso formativo, l'impegno nel cercare un'occupazione, le offerte del mercato del lavoro e, sempre rispettando le proprie attitudini, la possibilità di ridimensionare le proprie aspirazioni.
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Ad ogni modo, anche se i figli sono disoccupati, «non è l'attuazione dell'obbligo di mantenimento del genitore destinato a soddisfare l'esigenza a una vita dignitosa», «ma altri strumenti di ausilio che, ormai di dimensione sociale, restino finalizzati a dare sostegno al reddito, fermo l'obbligo alimentare da azionarsi nell'ambito familiare per supplire ad ogni più essenziale esigenza di vita dell'individuo bisognoso».
In estrema sintesi se la famiglia fornisce tutti gli strumenti e il figlio non vuole lavorare, il problema è del ragazzo. Nel caso in cui il figlio abbia fatto di tutto per cercare un'occupazione e non l'abbia trovata allora esiste un obbligo in capo alla famiglia.
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