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    UTOPIE DI UN DESIGNER – IL GENIO DI MENDINI TRA EDONISMO E FUNZIONALITÀ - NON È UN CASO CHE IL SUO OGGETTO PIÙ POPOLARE SIA IL CAVATAPPI “ANNA G.”: UNO STRUMENTO PER APRIRE BOTTIGLIE DI VINO (FUNZIONALITÀ) MA ANCHE IL RITRATTO DI UNA DONNA PIACENTE (L’EDONISMO


     
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    1. LA MOSTRA DI ALESSANDRO MENDINI DA DOMANI AL 26 APRILE

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    DA “la Stampa - Architetto, designer e artista, Alessandro Mendini è nato a Milano 83 anni fa. La mostra che gli rende omaggio ad Aosta, da domani al 26 aprile presso il centro Saint Bénin, si intitola «Empatie. Un viaggio da Prosut a Cattelan». Realizzato dall’Assessorato alla Cultura della Regione Valle d’Aosta e curata da Alberto Fiz, propone 80 opere tra dipinti, disegni, progetti, sculture, mobili e oggetti di arredamento, creati dagli inizi degli anni 70 e oggi «in dialogo» con grandi esponenti della letteratura, dell’arte e del design.

     

    2. PER FARE IL DESIGNER CI VUOLE UN FIORE

    Testo di Alessandro Mendini pubblicato da “La Stampa

     

    Vorrei fare un elogio della parola «utopia». Cioè di un certo modo non solo di intendere il progetto, ma anche di intendere la stessa vita. Utopia vuole dire sognare. Vuole dire tendere verso un obiettivo nobile e bellissimo, anche se si sa che non è raggiungibile. È il miraggio verso un mondo meraviglioso, e molto diverso da quello violento vissuto anche oggi dall’umanità. 
     

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    «Utopia» fu un nome inventato dal filosofo inglese Tommaso Moro nel ’500. Con questo nome immaginava una piccola isola di fantasia collocata in mezzo all’oceano. Tommaso Moro fu anche il principale e autorevole consigliere politico del re Enrico VIII, ma per la sua moralità visse una vita molto difficile. Infatti a quei tempi l’Inghilterra era sotto una crudele dittatura. Il re fece imprigionare il Moro per le sue idee liberali e dopo molti anni lo fece decapitare.
     

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    Un ideale ambizioso
    Non sto proponendo qui che tutti i designer e tutti gli architetti debbano farsi tagliare la testa per affermare le loro utopie. Sto invece dicendo che l’utopia è un metodo di lavoro valido per tutti. È un ideale ambizioso proprio perché impossibile. È il metodo per aprire il progetto verso ampi orizzonti. Anche la storia del design è ricca di tensioni che contrastano le violenze del mondo. Allora io penso che ciascuno di noi designer possa lavorare per esprimere la sua personale utopia. Ognuno può formulare l’ipotesi, la speranza, la fantasia di immaginare la sua isola teorica, la sua proposta originale e alternativa.

    Anche io, per esempio, ho varie utopie. Ne dico una sola, tanto ingenua quanto impossibile da raggiungere. Ho l’idea di pensare che i miei oggetti e le mie architetture possano essere pensati e progettati così come la natura aveva creato e disegnato i fiori. L’idea di sapere copiare proprio i fiori che sono gli oggetti più belli della natura: leggeri, colorati, effimeri, romantici. Ma come posso pretendere di copiare la fresca fragilità dei fiori? Ma come posso permettermi questa ambizione? Eppure faccio così, anche se so che non riuscirò. Ma è questa una mia tensione, un mio destino, una mia testimonianza. E questa mia utopia è una «utopia umanistica».
     

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    Ma esistono altri tipi di utopia. Per esempio esiste l’«utopia pragmatica». Quella cioè capace di raggiungere realmente il suo obiettivo pratico. C’era una volta, infatti, un obiettivo quasi religioso e impossibile da raggiungere, che poi è diventato una grande realtà popolare e collettiva. Una volta erano solo gli sciamani e i maghi che sapevano comunicare tra di loro a grandi distanze.

     

    Avvicinavano con la mano una conchiglia all’orecchio, e con l’intensità del pensiero compivano questa magia davanti al popolo incredulo. Sapevano parlare con altri sciamani lontano lontano. Ma l’«utopia pragmatica» e «scientifica» provò a immaginare che le nostre parole potessero correre con la velocità della luce. Che una persona qualsiasi, avvicinando all’orecchio non più una conchiglia, ma un piccolo lucido rettangolo nero, potesse parlare e vedere qualsiasi altre persona lontana lontana nel mondo.

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    Nonne, zie, bambini, fidanzati, malati, manager, contadini eccetera. È questa l’«utopia pragmatica», cioè quella davvero realizzabile. È il miracolo collettivo dove a fare la parte degli sciamani sono specialmente i designer coreani con le loro sofisticate tecnologie e industrie. E così è avvenuto che milioni di persone normali possono avere l’ubiquità degli dèi, e nello stesso piccolo rettangolo lucido e nero anche disporre di tutte le conoscenze del mondo. 
     

    Le definizioni del design oscillano fra due limiti estremi, come il moto di un pendolo. A un estremo c’è l’«utopia pragmatica» del design inteso esclusivamente nella sua funzione, come freddo strumento d’uso. All’altro estremo c’è l’«utopia umanistica» del design inteso come espressione poetica, come sentimento, addirittura come arte. Tecnologia contro emozione?

     

    Prodotto elettronico contro oggetto fatto a mano? Industria contro artigianato? In realtà il percorso avanti e indietro del pendolo dà luogo a infinite interpretazioni del design, e a infiniti atteggiamenti e professioni. E così gli utenti che comprano gli oggetti possono scegliere fra infinite possibilità, secondo le loro «utopie personali», le loro esigenze, il loro carattere, la loro attitudine razionale oppure romantica. 
     

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    L’emozione di un oggetto
    Ma l’emozione che un oggetto può contenere è inversamente proporzionale alla complessità del suo uso. Più l’oggetto è complesso, meno conterrà la libera e antica espressione dello spirito. Per esempio tutta l’estetica del design informatico è giustamente concentrata nella sua funzionalità. Nel design informatico e virtuale l’estetica è limitata al progetto grafico. E all’opposto più l’oggetto ha un uso elementare e semplice, meno vincoli avrà l’estetica della sua forma. Un vaso non necessita di molta ingegneria per contenere i fiori. Un vaso è come un fiore tra i fiori.

     

    L’obiettivo diretto della sua esistenza è proprio la ricerca della sua bellezza artistica. In questo caso il design parte dalla forma invece che dalla funzione perché il suo obiettivo è quello di provocare emozione e la sua utopia è tutta simbolica. E allora in questi due punti limite del moto del pendolo, in questa dialettica fra «utopia tecnologica» e «utopia poetica» si concentra oggi la principale discussione fra noi designer. E, a pensarci bene, in questa dialettica è contenuto il futuro dell’umanità.

     

    3. UN MAESTRO DEL GUSTO ITALIANO TRA EDONISMO E PRATICITÀ

    Marco Belpoliti per “la Stampa

     

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    Alessandro Mendini è il designer e l’intellettuale dell’Utopia, parola chiave nel suo fare, scrivere, dire. Questo architetto, figlio della ricca borghesia milanese, che da ragazzo andava in giro per l’Italia a disegnare chiese, ha fatto suo il pragmatismo della classe sociale da cui proviene, così la sua l’utopia non è quella politica, come per il «sovversivo» Ugo La Pietra (la sua mostra si è appena aperta alla Triennale di Milano), bensì scientifica, di quello scientismo di cui andava fiero l’ingegner Gadda, utopia pratica e insieme barocca, poetica ma dedita al concreto.

     

    Forse per questo l’oggetto più famoso, e forse non del tutto amato dal suo creatore, diffuso in milioni di copie, è il cavatappi che Mendini ha progettato per Alessi nel 1994, «Anna G.», insieme uno strumento per aprire bottiglie di vino (la praticità) ma anche il ritratto di una donna piacente (l’edonismo che si annida nel pragmatismo meneghino, nel suo apparente calvinismo). 
     

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    Eppure Mendini non si può dire un moderato, né come designer né come intellettuale. Ha progettato una provocatoria «Poltrona di Proust», ha ispirato e fatto parte di Global Tools (1973) e Alchimia (1979), di quel design radicale che è stato etichettato, magari troppo in fretta, con la formula di «postmoderno». Forse anche per la sua predilezione per i colori accesi di origine futurista. La sua provocazione è tuttavia sempre scientifica, metodica, come la sua stessa persona, in cui alberga una delicatezza unita a una parola efficace e tagliente. 
     

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    La sua capacità di orientare i discorsi sul designer è testimoniata dalla fondazione delle riviste Modo e Ollo, e soprattutto dalla direzione di Domus, di cui è stato direttore dal 1979 al 1985, in anni decisivi per il cambio di paradigma del design italiano legato al suo nome e a quello di Ettore Sottsass. Come si capisce leggendo l’intervento pubblicato in questa pagina sul tema dell’Utopia, Mendini possiede una singolare chiarezza e lucidità, forse merito anche della sua origine sociale e cittadina, che ne fa uno dei teorici più importanti del progetto di «cose» e «oggetti» degli ultimi quarant’anni. Un maestro indiscusso del gusto italiano.

     

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