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    DAZI AMARI PER PECHINO  - TRUMP ANNUNCIA ALTRE TARIFFE PER 50 MILIARDI DI DOLLARI - LA RISPOSTA IMMEDIATA ALLA CASA BIANCA DELLA CINA CHE TASSERÀ PER UN IMPORTO EQUIVALENTE ALTRI PRODOTTI A STELLE E STRISCE - LA CONTROREPLICA DI "THE DONALD": SIAMO PRONTI A IMPORRE ULTERIORI DAZI SE…


     
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    Rodolfo Parietti per il Giornale

     

    donald trump donald trump

    Teste calde, e teste che cadono. Sono così diverse, le Americhe. C' è quella di Trump, fondata sul tweet quotidiano usato come randello universale, come arma mediatica con cui si annuncia di tutto a suon di slogan. A cominciare dai dazi. Con la Cina il fronte di guerra (commerciale) si sta pericolosamente allargando: altri 50 miliardi di tariffe punitive sono in arrivo. Pechino ha già fatto sapere che non resterà a guardare. Poi c' è l' altra America, più a sud, lì dove soffre l' Argentina colpita al cuore da un peso più leggero di una carta velina, tanto da costringere il governatore della banca centrale a far le valigie.

     

    trump e xi jinping alla citta proibita piazza tien an men trump e xi jinping alla citta proibita piazza tien an men

    Per la Fed, che è già in modalità restrittiva (altri due rialzi dei tassi in canna entro fine anno), il protezionismo trumpiano è un problema. Anche se Jerome Powell, numero uno dell' istituto di Washington, non lo ammetterà mai. È vero: quantificarne oggi l' impatto sull' economia è impossibile. Ma proprio perché il tycoon non ha ancora finito il lavoro. Iniziata con l' attacco all' acciaio e all' alluminio non Usa, la crociata a difesa dell' America First si è arricchita di altri fronti caldi.

     

    L' ultimo atto di un conflitto destinato a non esaurirsi presto, sono i nuovi dazi del 25% contro prodotti tecnologici cinesi. Per un valore stimato per il 2018 di 50 miliardi di dollari, saranno introdotti in due tranche, così da colpire 1.102 beni del Dragone senza andare a toccare quelli (tipo i cellulari) che finiscono nella borsa della spesa dei consumatori americani. Per 818 categorie di prodotti, pari a un controvalore di 34 miliardi, la tagliola delle tariffe punitive scatterà dal prossimo 6 luglio; per l' altra parte, che comprende 284 categorie di prodotti per 16 miliardi di dollari, resta da stabilire la data di entrata in vigore.

     

    trump e xi jinping alla citta proibita piazza tien an men trump e xi jinping alla citta proibita piazza tien an men

    Trump continua a ripetere, e lo ha fatto anche ieri, che nonostante la marea montante dei dazi non è ancora scoppiata una guerra commerciale vera e propria. I cinesi - e i mercati, ieri tutti in negativo (-1,3% Milano) - cominciano a pensarla in modo diverso. E visto che, formalmente, le trattative tra i due Paesi sono tuttora in corso, cresce l' irritazione. A nessuno, del resto, piace negoziare con chi ti tiene il coltello puntato alla gola. Da qui la risposta immediata alla Casa Bianca: la Cina tasserà per un importo equivalente, cioè 50 miliardi, altri prodotti a stelle e strisce. Da definire la lista dei beni nel mirino. Non solo. Pechino invita tutti i Paesi ad «agire assieme per porre fine risolutamente a questo comportamento obsoleto e regressivo» degli Stati Uniti. Controreplica di The Donald: siamo pronti a imporre ulteriori tariffe se i cinesi colpiranno altri nostri prodotti.

     

    donald trump xi jinping donald trump xi jinping

    Insomma, siamo all' escalation delle ritorsioni. Dal Messico all' Oriente e fino all' Europa, è tutto un fiorire di quelle che qualcuno chiama eufemisticamente «misure di riequilibrio».

     

    Alla fine, qualcuno rimarrà scottato. Forse gli stessi Stati Uniti, che potrebbero importare inflazione se la forza attuale del dollaro dovesse cessare. Costringendo magari la Fed ad essere ancora più aggressiva sui tassi.

     

    Per i Paesi emergenti sarebbe un problema serio. Le recenti strette della banca centrale Usa, e il contestuale aumento dei rendimenti dei T-bond, hanno già scosso le economie indebitate in dollari. Nonostante gli aiuti del Fondo monetario internazionale, sta infatti continuando la caduta del peso argentino, che ieri ha perso un altro 6% rispetto al greenback (oltre il 30% il calo da fine maggio). Dopo aver provato a contrastare la crisi a colpi di rialzi dei tassi e intaccando le riserve valutarie, il governatore del Banco Central de la República Argentina, Federico Sturzenegger, ha gettato la spugna. Lascia la carica al ministro delle Finanze, Luis Caputo, in un momento in cui il Paese deve anche fare i conti con l' inflazione (al 26,3% in maggio) e con un Pil che flirta con la recessione.

     

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