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Col senno di poi, e con il più inatteso degli scudetti appuntati sul petto, viene quasi da sorridere a pensare ai lunghi anni in cui il Milan arrancava in zone plebee della classifica, mentre Paolo Maldini, la sua icona più riconoscibile e rispettata a livello globale, svernava pigramente sulle spiagge della Florida.
Lui, sommessamente, nelle rare interviste concesse durante il suo lungo esilio dal calcio, faceva notare che il crepuscolare Milan di Berlusconi e Galliani mancava di visione strategica, di conoscenza delle cose di campo. Che il club fosse privo di uomini-Milan, legati al club e al suo sbiadito incanto.
Sembravano discorsi di comodo, di chi può permettersi il lusso di giudicare senza dover affondare le braccia nel fango. Non ha esperienza dirigenziale, si diceva di Maldini. Per non citare, non ne vale la pena, commenti ancor meno lusinghieri. Oggi, nell’esaltazione per il 19esimo scudetto della storia rossonera, sappiamo che non era così: che quel Milan era effettivamente senza bussola e senza direzione, e che Paolo Maldini conosceva abbastanza le stelle per rimetterlo in rotta.
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Elliott, Leonardo e il ritorno al Milan
Superfluo dire che nulla è stato semplice, nel percorso che ha portato Paolo Maldini dallo status di ex fenomeno della difesa a quello di rampante dirigente sportivo (o, per rispettarne il titolo ufficiale, “Direttore dell’Area Tecnica”). Il 5 agosto 2018, giorno ufficiale del Ritorno del Re a Milanello, Maldini era solo il braccio destro di Leonardo. Era l’ondivago brasiliano, e non l’ex capitano, l’uomo forte di Elliott, il fondo che aveva appena salvato il Milan dal patatrac cinese.
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Leonardo, come sappiamo, non è durato molto. Il tempo di imbastire qualche operazione onerosa ma poco fortunata – vedi Higuain e Caldara quell’estate, e quindi Paquetà e Piatek nel gennaio successivo – e a maggio 2019 è già tempo di far ritorno alla corte parigina di Al Khelaifi. Un periodo che Maldini, nella sua biografia, ricorda con gusto dolceamaro: “Mi sentivo inadatto, dovevo imparare un lavoro nuovo. Leonardo mi ha insegnato tanto, ma ho iniziato a sentirmi davvero calato nel ruolo solo dopo che Leo se n’è andato”.
Al posto del brasiliano, Ivan Gazidis, nel frattempo nominato CEO da Elliott, sceglie un altro personaggio dall’indiscutibile pedigree milanista, l’uomo Fifa Zvonimir Boban, nominato Chief Football Officer. “Con Zorro ci completavamo”, racconta Maldini, “lui seguiva gli attaccanti e io i difensori”. Ma anche la partnership con il croato non è destinata a durare a lungo.
Il breve interregno di Boban, l’ombra di Ragnick, il lockdown
La stagione 2019-20, infatti, parte col piede sbagliato. Il nuovo tecnico scelto dal duo milanista, Marco Giampaolo (presumibilmente, l’unica scelta improvvida di Maldini finora), non riesce a plasmare una squadra comunque rafforzata da diversi acquisti interessanti, da Theo Hernandez a Rafael Leao, passando per Ismail Bennacer. E dopo l’esonero di Giampaolo, a inizio ottobre, nemmeno la scelta di Stefano Pioli sembra scuotere una squadra anestetizzata dalle sconfitte. Il Milan arranca a metà classifica e il 22 dicembre tocca il punto più basso della gestione-Elliott, con il 5-0 rimediato a Bergamo dall’Atalanta di Gasperini.
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Sembrano esserci tutte le premesse per un nuovo ribaltone. Ed è esattamente ciò che stava preparando Gazidis, intenzionato a cooptare il guru Ralf Rangnick, stratega del Lipsia targato Red Bull. Le voci corrono e lo scoop finisce sui giornali. Boban e Maldini si sentono scavalcati, la scelta del tecnico dovrebbe ricadere sotto la loro responsabilità. Paolo mastica amaro ma lo fa in silenzio, Boban è più mercuriale, non si trattiene e il 29 febbraio 2020 accusa apertamente Gazidis:
“Non avvisare me e Maldini su Rangnick è stato irrispettoso e inelegante, non da Milan”. L’epilogo è scritto: Boban viene sollevato dall’incarico il giorno 7 marzo con un gelido comunicato. Il giorno dopo, il Milan perde in casa per 2-1 contro il Genoa tra i fischi di un San Siro depresso come non mai. Il gol rossonero porta la firma di Zlatan Ibrahimovic, tornato a gennaio a Milanello dopo 8 anni, senza produrre la svolta sperata. E poi, il lockdown.
Ibrahimovic, Pioli e la nascita del Milan di Paolo Maldini
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Di come il Milan sia risorto dalle sue ceneri proprio nel momento più tragico, a livello planetario, da almeno un ventennio a quella parte, si sono riempite e si riempiranno decine di pagine. Quando il mondo, e con esso il calcio, poté rimettere il naso fuori di casa, tre mesi più tardi, del balbettante Milan del decennio precedente non c’è praticamente più traccia. Trascinato da un Ibra che sembra aver fermato il tempo, i rossoneri infilano 9 vittorie e 3 pareggi nelle 12 gare di campionato post-lockdown e qualificazione all’Europa League conquistata in una torrida notte di fine luglio proprio a Reggio Emilia, proprio contro il Sassuolo.
Quella sera, a sorpresa, il Milan annuncia la permanenza di Stefano Pioli sulla panchina rossonera, con tanti saluti a Rangnick, per lo stupore dello stesso Ibrahimovic a bordocampo (“Pioli resta? Non lo so, qui ci sono novità tutti i giorni, però sta lavorando bene… ma è vero che Pioli resta?”). Ma il tecnico parmigiano non era l’unico sulla graticola. Anche il futuro di Paolo Maldini, dopo il burrascoso addio di Boban, sembrava segnato. Ma la cavalcata estiva dei rossoneri convince la proprietà e Gazidis a tornare sui propri passi: Pioli e Maldini restano. E mai scelta fu più azzeccata.
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Coadiuvato da Frederic Massara, arrivato sottotraccia l’anno prima in sostituzione di Boban, e da Geoffrey Moncada, capo scout rossonero classe ’87 e scopritore, tra gli altri, di un Kylian Mbappé allora 12enne, Maldini, ormai plenipotenziario dell’area sportiva, mette in cantiere numerose operazioni di mercato “poca spesa, tanta resa”. Arrivano giocatori giovanissimi e/o misconosciuti come Sandro Tonali, Alexis Saelemakers, Brahim Diaz e Pierre Kalulu, e poi ancora Fikayo Tomori a gennaio. La stagione 2020-21 si concluderà con il ritorno in Champions League dopo sette, interminabili anni di assenza e, soprattutto, con la rinnovata consapevolezza che la squadra di Pioli ha ancora enormi margini di miglioramento. E, nel mentre, vengono appianate definitivamente le antiche divergenze con Gazidis: “Ero pronto a lasciare se fosse arrivato Rangnick. Poi però le cose sono cambiate. Se confronto le idee sportive che avevo quando sono arrivato con quelle che ho adesso, mi rendo conto che è cambiato il mondo. Ho visioni totalmente diverse, ed è così grazie anche al confronto con la proprietà, con persone diverse da me”.
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Maldini e un futuro sempre più rossonero
L’occhio al bilancio è sempre vigile, anche perché bisogna fare i conti con i danni economici prodotti dalla pandemia e con la spada di Damocle del fair play finanziario. A tal punto che, di fronte a richieste contrattuali a troppi zeri, perfino titolarissimi come Gigio Donnarumma e Hakan Calhanoglu vengono accompagnati alla porta senza troppi piagnistei.
Qui, forse più che in ogni altro aspetto, si rivela la vera cifra stilistica del Paolo Maldini dirigente. Schiena dritta di fronte a desiderata ritenuti irragionevoli: prima di tutto viene il rispetto per gli equilibri dello spogliatoio (a cui, chiaramente, non sono estranei gli aspetti salariali) e, soprattutto, prima di tutto viene il club.
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I tifosi apprezzano e si schierano compattamente dalla parte di Maldini e delle società. La quale, peraltro, completa l’opera nel migliore dei modi, andando a pescare in Ligue 1 Mike Maignan, destinato rapidamente a imporsi come il portiere dal miglior rendimento dell’intera Serie A. Niente male, dal momento che era chiamato a sostituire l’MVP di Euro 2020. E la colonia francese, su imbeccata di Moncada, si popola ulteriormente con gli arrivi di Giroud e Bakayoko dal Chelsea, di Florenzi dal PSG, oltre che di Yacine Adli, acquistato con un anno di anticipo. Il resto è storia recente, anzi contemporanea.
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E quella futura? Come Massara, Maldini ha il contratto in scadenza a fine giugno. Di rinnovo non si parla, almeno non a microfoni accesi. C’era uno scudetto da vincere e, soprattutto, le voci attorno a un possibile cambio di proprietà sconsigliavano prese di posizioni pubbliche. Ma, con Elliott o senza, un Milan che voglia ripartire senza il suo nume tutelare sembra una prospettiva che oltrepassa ogni sentimento e ogni ragione.
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