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    VANESSA BEECROFT TORNA SUL LUOGO DOVE TUTTO INIZIO’: MILANO – “SONO MOLTO CONSERVATRICE E L’ARCHITETTURA CONTEMPORANEA, SPECIALMENTE IN ITALIA, NON MI SEMBRA GRANCHÉ. HO INTRAVISTO LA ZONA INTORNO ALLA STAZIONE GARIBALDI E LA TROVO PIUTTOSTO DEPRIMENTE”


     
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    Maria Egizia Fiaschetti per corriere.it

     

    (foto Nicola Marfisi)

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    Una silfide in camicia bianca e tailleur pantalone nero. Eleganza boysh, maschile, in stile Saint Laurent. Vanessa Beecroft - genovese, classe 1969 - artista italiana tra le più conosciute sulla scena internazionale, martedì era a Milano per il Premio Furla. Un ritorno da madrina, undici anni dopo la sua prima performance, VB1. 

     

    Le mancava lo shopping milanese? 
    «Mi hanno perso la valigia e sono dovuta correre a comprare qualcosa. Passeggiando nel Quadrilatero, ho notato che le scelte dell’abbigliamento sono eleganti, sofisticate, con un gusto intellettuale alla Belle de jour (dal film di Buñuel del ‘67, protagonista Catherine Deneuve, ndr): in confronto, Rodeo Drive a Los Angeles è tacky (volgare)». 

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    Milano città della moda. L’estetica, il grande spettacolo urbano l’hanno influenzata? 
    «Da ragazzina strappavo le pagine di “Vogue” con le foto di icone storiche come Twiggy, ma la moda non è mai stata in cima ai miei interessi. L’ho incontrata più tardi (un caso che a organizzare la sua cerimonia di nozze con il primo marito, Greg Durkin, a Portofino sia stata proprio Franca Sozzani, direttrice della rivista? )». 


    Infanzia a Malcesine, un piccolo paese sul lago di Garda, e liceo artistico a Genova: come è stato l’impatto con Milano? 
    «Avevo in testa la Milano di Antonioni, grigia, nebbiosa. Una città industriale, antimonumentale. Mi incuriosivano la società e la classe operaia, l’eco di Manzoni e Fontana. Quegli anni sono stati malinconici e deprimenti. La solitudine, in compenso, favoriva la concentrazione». 

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    Dove abitava? 
    «Dopo due mesi come ragazza alla pari, mi sono trasferita dai nipoti di Palmiro Togliatti in piazza Po, in una casa con giardino di inizio Novecento. All’epoca ero una fervente leninista e mi affascinavano l’atmosfera, i testi sugli scaffali della libreria. Sono rimasta poco, ho sempre avuto difficoltà a condividere gli spazi, così mio nonno comprò un bilocale in via Farini, appartenuto a Getulio Alviani. È ancora di mia proprietà, ma in stato di totale abbandono». 

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    Che ricordi ha dell’Accademia di Brera?
    «Sono stati anni molto formativi, frequentavo spesso il cinema in via De Amicis e la Statale. Seguivo le lezioni di personaggi storici come Francesco Leonetti, amico di Pasolini, Francesco Ballo, Mario Airò... Non c’erano studi, eravamo ammassati nei corridoi o nelle aule, tutto molto old style, all’antica». 


    Un ambiente rarefatto, fuori dal tempo. 

    «Il palazzo era splendido, con la statua di Napoleone nel cortile, ma le stanze erano buie e l’arte contemporanea praticamente assente». 


    La prima performance? 
    «Giacinto Di Pietrantonio, che teneva una corso di critica d’arte, e Laura Cherubini mi invitarono a esporre alla galleria di Luciano Inga Pin. Non avevo nessun lavoro, solo dei disegni, così decisi di raggruppare le ragazze dell’Accademia in quella che sarebbe stata VB1 (la numero 8, l’anno dopo, sarà al PS1 di New York, “In una reazione a catena fuori dal mio controllo”)». 

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    Dagli anni di Brera, come ha visto cambiare Milano? 
    «Passo ogni tanto, per occasioni di lavoro o quando sono in vacanza. L’ultima volta è stata nel 2011, per una mostra da Lia Rumma. So che Milano è molto rispettata dai giovani artisti, tra cui anche mio marito, Federico Spadoni. Mi dicono sia in continuo fermento: nuovi spazi espositivi, giovani galleristi, riviste come “Kaleisoscope” e “Mousse”». 


    Le piace il nuovo skyline? 
    «Sono molto conservatrice e l’architettura contemporanea, specialmente in Italia, non mi sembra granché. Ho intravisto la zona intorno alla stazione Garibaldi e la trovo piuttosto deprimente». 

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    I suoi luoghi del cuore? 
    «Alloggio sempre alla locanda Solferino. Brera è ancora intima, ha mantenuto la sua autenticità. È la zona che ho frequentato di più e in cui mi sento meglio. Amo molto anche Villa Reale e i giardini di via Palestro». 


    Il suo progetto per il Padiglione Italia a Expo 2015? 
    «Non sarà necessariamente legato al tema del cibo». 


    Una performance? 
    «L’evento dura sei mesi, dovrò pensare a qualcosa di meno effimero, ma con brani di performance. Sono onorata dell’invito di Marco Balich, esporre in un contesto diverso da musei o gallerie è challenging. Una sfida».

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