1 - LETTERA DI ARRIGO CIPRIANI A “LA NUOVA VENEZIA”
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Caro Direttore,
ti scrivo perché nel giorno del mio 88mo compleanno non posso più stare zitto sul modo e sul come sta andando e, sembra, verrà organizzato il mondo del futuro. Seguo con grande rabbia i timidi tentativi che i nostri politici fanno per convincere l’Europa a farci l’elemosina. Si stanno presentando come mendicanti “decubito proni”.
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Sento Prodi ed altri dire: “Ma insomma come si fa a rinunciare ai miliardi del Mes!”. embrano dimenticare che gran parte dei miliardi che sono stati versati li abbiamo messi noi e poi il Mes non è a fondo perduto, ma è un prestito. Ma non è tanto questo che mi da fastidio. Io penso che la lezione di questa pandemia sia quella di farci riflettere sulla dimenticata dimensione immateriale. La pandemia ci dice che nello spazio di sei mesi, grandemente aiutata dall’altissimo livello di paura seminato dai media nel mondo, è capace di distruggere e creare grandi ferite ad una società costruita sulla demenza dei social e sulla finanza.
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E ogni lezione dovrebbe far riflettere sullo scopo per il quale è stata concepita. E anche se non è stata concepita. Da questa esperienza usciremo con fabbriche con produzione dimezzata, con il mondo del superfluo semi distrutto, con forze di lavoro dimezzate, con mutui inesigibili, e molti fallimenti.
Malgrado questo incontrovertibile risultato il mondo della finanza continuerà la sua opera di smantellamento delle minoranze debitrici per rafforzare quelle creditrici. Cioè lezione zero. In questi giorni ho avuto il privilegio di vedere la mia città nuda come una vergine senza veli. E il racconto dei marmi e delle pietre vuoti mi hanno parlato del valore della immaterialità.
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Il mutismo, perfino quello dell’acqua, mi ha descritto una dimensione che parla di mille anni di storia vissuta da uomini che avevano grande voglia e forza di vivere. E il risultato è ancora qui che ne parla. Un grande esempio del contrario è Marghera, che in pochi anni ha visto l’ascesa e la distruzione di un mondo che era stato voluto solo dal guadagno. Sono ora patetici i tentativi degli uomini ideologici di appiccicarle una patente culturale.
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Tornando all’Italia, alle due effimere Lagarde Banconota e Ursula Antianidride, direi: Noi siamo l’Italia, noi siamo il paese dell’Immateriale, dell’intangibile dove tutto è stato creato senza uno straccio di preventivo che non fosse quello dell’intelligenza, della cultura, del profondo desiderio del bello, dalla grande voglia di lasciare la Magia a quelli che verranno dopo di noi.
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Poi, di fronte alla risposta di chi non riesce a comprendere direi:
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“Carissime, l’Inghilterra, che tra l’altro è l’unico paese europeo che ha davvero vinto la Seconda guerra mondiale e l’Italia, se ne vanno, e se ce ne andiamo noi, voi avete finito la vostra corsa”. Ti scrivo, caro Direttore, anche perché noto il silenzio dei nostri intellettuali, se ce ne fosse ancora qualcuno che non sia ideologizzato, e dei quali non leggo la voce.
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Ecco caro Direttore, per questo, anche a 88 anni e se mi passi la provocazione, io prenderei il fucile.
Arrigo Cipriani
2 - L'ULTIMA ORA DI VENEZIA. PRIMA SOMMERSA E POI ABBANDONATA GIÀ PERSO UN MILIARDO, ORA È RISCHIO CRAC
Giampaolo Visetti per “la Repubblica”
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Nemmeno i vecchi ricordavano più i rumori di Venezia. Quello dell' acqua che sbatte nei rii. Il vento che bussa ai giardini segreti dei palazzi. Prima solo gabbiani e colombi: adesso tra i canali fermi si sentono anche le cince. Il silenzio assoluto erano invece i turisti. Un fragore indistinto, che aveva tappato gli orecchi di tutti.
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«Finalmente - dice Arrigo Cipriani - rivedo quanto sia vasta questa città. Il bacino di San Marco, i ponti degli Schiavoni: prima sembravano stretti, ora rivelano la loro ampiezza. Il problema però non è il vuoto: finita la pandemia, sarà restituire a Venezia l' anima originaria».
Il patron dell' Harry' s Bar compie 88 anni e parla nel suo ristorante deserto. Simbolo della città, dal 1931 aveva sospeso il servizio solo tra il 1943 e il '45, requisito dai fascisti, e nel primo giorno dell' alluvione del 1966. «A metà marzo - dice Cipriani - ho chiuso invece la porta senza sapere quando la riaprirò. Se le condizioni per la sicurezza non cambiano, un locale che ambisce alla cultura dello stile non può ricominciare. Senza lavoro, incombe una crisi sociale che l' uomo non ha mai conosciuto ».
Sanificazione a Venezia
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Venezia è il campo base di chi vuole vedere e capire il mondo. Qui la catastrofe non è cominciata con il coronavirus. La notte del 12 novembre è stata sommersa dall' acqua alta. Le maree da record sono durate due settimane.
Da sei mesi la paura, dell' acqua e del virus, ha azzerato i turisti. Chiusi musei, chiese, teatri, alberghi, ristoranti e negozi. Calli e campi sono vuoti. Murati in casa gli abitanti, ridotti da 180 mila e meno di 52 mila. «La tragedia di Venezia - dice Giovanni Pelizzato, terza generazione di librai alla Toletta - oggi è questa. Negli altri luoghi del mondo la gente non esce, ma c' è.
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Qui invece non c' è più: se togli i turisti, rimangono le pietre. Il contagio rivela l' orrore di un modello fallito. In mano agli estranei la città scoppia, ma senza di loro è priva di energie proprie e non sa come rinascere ». In laguna tutti mangiano grazie al turismo internazionale.
Prima della mareggiata e del virus l' assalto era tale che per non soffocare si ipotizzavano numero chiuso, biglietto e prenotazione. Adesso l' incubo è invece chiudere per assenza di arrivi. Già perso oltre un miliardo.
«Abbiamo l' ultima occasione - dice Saverio Pàstor, remèr e forcolaio a San Gregorio - per evitare la fine della città. A patto di ripartire dall' acqua, che non è un fastidio da allontanare. Venezia non ha repliche, resta lenta e dominata dalla natura: è il modello che può salvare la vita sulla terra». Senza turisti e senza lavoro però incombe il crac. Il buco del Comune supera i 300 milioni. Il 40 per cento delle corse dei vaporetti è a rischio. I soldi per scuole, anziani, rifiuti, manutenzione di musei e chiese non bastano più. L' acqua alta ha fatto scattare l' allarme, ma il virus suona davvero una marcia funebre. Decine di artigiani non riapriranno. «Servivo 42 ristoranti e alberghi - dice Antonio Barozzi, panettiere da quarant' anni - adesso mi resta un solo cliente. I veneziani assistono all' agonia della città. È tutto in vendita: gruppi stranieri e criminalità saranno presto i padroni dell' ex Serenissima».
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Covid-19 ha imposto uno stop globale. Dopo due mesi ovunque si freme per ricominciare la vita di prima. Qui invece si teme che ciò possa accadere. Impossibile reggere l' urto sanitario di milioni di turisti ammassati sui vaporetti e nelle calli, accampati sui ponti.
«Il dramma - dice Fabio Caregnato, storico venditore di frutta e verdure sulla barca al Ponte dei Pugni - è aver accettato un sistema che sta in piedi solo se è umanamente insostenibile. Tornare indietro e restituire Venezia a chi ci vive, dopo il coronavirus non è più un' opzione. È la condizione per sopravvivere. A condizione di chiarire subito le idee sulle cose da fare». I sopravvissuti, lo sanno. Le case non possono più essere alberghi clandestini e bed&breakfast sfruttati dal monopolio delle immobiliari. Il lavoro qualificato non può più essere trasferito in blocco sulla terraferma.
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«Il giorno in cui Venezia ha chiuso per virus - dice Cipriani - resterà indimenticabile. Studenti, camerieri, cuochi e commessi in fuga.
Questione di ore e un po' di vita è rimasta solo a Castello, a Santa Marta e a San Giobbe. Il resto, un deserto. Quando ero bambino la città somigliava a una casa, le calli erano i corridoi e i campi i salotti.
Siamo stati una comunità, si viveva ovunque e insieme. Sono gli esseri umani la leva spirituale che permette di superare gli snodi cruciali. Per la prima volta Venezia e la laguna oggi si rendono conto che i soldi non bastano: senza i loro abitanti sono al capolinea». Centinaia, in tutti i sestieri, gli annunci «cedesi attività». In rotta anche commercianti cinesi e cuochi indiani.
Fermi gondolieri, motoscafi e barchini. «Chi decide - dice Pàstor - non conosce l' eccezionalità veneziana. Canali e laguna sono le nostre strade. Bloccare le barche equivale a fermare le auto nel resto del Paese. Nessuno si è sognato di farlo perché non serve a contrastare il contagio. A Venezia invece è stato chiuso anche il mare: si capisce dai dettagli quanto è necessario riunire le più complete intelligenze del pianeta per evitare che la città, abbandonata alle scosse della crisi e all' ignoranza, non superi la polmonite».
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Molti, senza aspettare, si sono rimboccati le maniche. I giovani consegnano a domicilio spesa e pasti agli anziani. Giovanni Pelizzato porta personalmente i libri nelle case dei lettori. «Nove su dieci - dice - vogliono romanzi: crollata la saggistica. Sconvolti dalla paura del futuro, i veneziani si rifugiano nei sogni.
Virus e spopolamento sono le due facce della stessa medaglia. Nel Seicento, dopo la peste, per non estinguersi Venezia importò persone dalla Dalmazia. Anche oggi ci salviamo se nelle case tornano i bambini, che inventano la felicità. I giovani non devono andarsene per trovare un lavoro appassionante ».
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La speranza è che il mondo possa ritornare a guardare la sua città più decisiva entro l' estate. Saltati eventi, festival e crociere, qui sarà passato quasi un anno dall' inizio dell' isolamento. Realistico pensare già al 2021. Venezia, dopo oltre settant' anni, rivede così gli occhi chiusi della povertà. Rimane la grande bellezza, una costante nostalgia: questa volta però, per evitare che l' epidemia cancelli anche il luogo senza il quale la civiltà dell' Occidente non ha una storia, non bastano.
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