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    VENI, VIDI, ''VICE'' - IL ''MAGAZINE DEI MILLENNIALS'' ERA SOLO UNA GRANDE BOLLA DI MARKETTING? UNA CATTIVISSIMA INCHIESTA DEL 'NEW YORK MAGAZINE' RIPERCORRE LA PARABOLA DEL “MAGAZINE DEI MILLENNIALS” E DI QUEL CHE NE RIMANE - DA MAGAZINE SGARRUPATO ALLA VALUTAZIONE (GONFIATA) DI 5,7 MILIARDI DI DOLLARI, DALLE MARCHETTE AI VIDEO - COME AFFRONTERÀ IL FUTURO SENZA IL FONDATORE E UOMO-MARCHIO SHANE SMITH? – VIDEO


     
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    VIDEO - "DENTRO L'ISIS", IL REPORTAGE DI VICE

     

     

    Dagonews da “New York Magazine

     

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    Che succederà a Vice? Come affronterà il futuro senza Shane Smith, l’uomo che ha contribuito a forgiare l’aura di fighettaggine che la società ha sfruttato per ricevere milioni di dollari da Rupert Murdoch e Intel? A porsi queste domande, e più in generale a cercare di capire come Vice è diventato quello che è diventato per la cultura pop degli anni 2000 è stato il New York Magazine, con un articolo che ripercorre i primi 24 anni di storia della rivista per quello che sono stati: un grande, immenso bluff.

     

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    Shane Smith si è dimesso a marzo da CEO di Vice. Barbuto, un forte accento canadese, negli anni era diventato il volto e il simbolo della generazione che avrebbe dovuto distruggere il giornalismo per come l’abbiamo sempre conosciuto. Senza riuscirci.

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    Vice e Buzzfeed sembravano essere a un certo punto i migliori interpreti del giornalismo ai tempi di Facebook. L’alternanza tra i cosiddetti gattini e le hard news, la capacità di produrre video veloci da qualsiasi parte del mondo, l’utilizzo di Facebook. Ma chi di algoritmo ferisce, alla fine di algoritmo perisce. Mark Zuckerberg si è mangiato tutto, mentre nel frattempo i “vecchi media” hanno recuperato lo spazio che piano piano gli era stato tolto. E lo hanno fatto non copiando Vice o Buzzfeed, bensì tornando, anche grazie all’elezione di Trump, a fare i “cani da guardia” del potere.

     

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    L’era della disruption è finita? Ancora è presto per dirlo. Di sicuro c’è che Buzzfeed taglia posti di lavoro e annuncia che il suo modello pubblicitario non è più sostenibile. E Vice, che un tempo era valutato 5,7 miliardi di dollari, adesso si trova a dover gestire un castello di sabbia in mezzo a una tempesta.

     

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    Nel 2016, niente sembrava poter scalfire “il giornale dei millennials”: fu allora che la valutazione di Vice raggiunse i 6 miliardi di dollari, con magno giubilo di Smith: “Diventeranno 50 entro la fine del decennio”. Tutto era bellissimo. Vice da sgarrupato giornale gratuito per skater era diventata una compagnia con 3mila dipendenti suddivisi tra un network televisivo, più di 12 siti web, 2 show sulla Hbo, un’agenzia, uno studio cinematografico, un’etichetta e persino un bar a Londra.

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    Ma anche i millennials crescono, e a un certo punto si annoiano. Mettono su la pancetta, fanno figli e non vogliono più leggere reportage (pseudo)lisergici o resoconti di schifose abbuffate. Così anche Vice ha perso la sua identità, e ritrovarla può essere un problema: autoproclamatosi voce della generazione X, poi della Y, poi della Z, persone che nemmeno hanno un’idea di cosa sia, per dire, il punk.

     

    Era il 1994 quando Smith, insieme a Suroosh Alvi e Gavin McInnes utilizzò alcuni contributi del governo canadese per avviare l’avventura che poi lo renderà ricco e famoso: un magazine a Montreal divertente, alla moda e scurrile. Un magazine che doveva sferzare le contraddizioni del mainstream (salvo poi diventare esso stesso il mainstream).

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    La prima svolta arrivò nel 1998, con un investimento del magnate canadese Richard Szalwinski. Quei soldi sparirono con la bolla delle dot-com e a quel punto i ragazzi di Vice si trovavano in un loft di Williamsburg senza niente. In qualche anno riuscirono a mettere sul piatto due innovazioni che avrebbero contribuito a creare il business dei media: le marchette e i video online. Proprio i video saranno la croce e la delizia della compagnia.

     

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    Delizia, perché negli anni hanno contribuito a formare quell’immaginario di giornalisti pronti a partire e infilarsi tra le fila dell’Isis, mandare Dennis Rodman in Corea del Nord, nascondersi tra le gang di droga più violente. Croce, perché Viceland, il canale tv via cavo lanciato nel 2016, è costato molto più di quanto abbia reso.

     

    Le marchette, invece, sono la strada con cui Vice ha cercato un modello di revenue alternativo al pay-per-click. E dunque via a contenuti sponsorizzati e campagne di comunicazione, a festival brandizzati e avanti così: il primo e più corposo contratto, quello che ha dato il la, è stato Intel, che ha dato a Shane Smith 25 milioni per lanciare “The creators project”, una serie multimediale di arte e tecnologia che costrinse tutti gli altri a inseguire.

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    Poi ci sono state le redazioni aperte in tutti i paesi del mondo, compresa l’Italia, e la pretesa di connettere e raccontare i “cool kids” di tutto il mondo. Qual è stata la costante di questo successo? Shane, con le sue sparate: “Diventeremo la prossima Mtv, Espn, Cnn, ma tutti mischiati insieme”.

     

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    Nel frattempo i soldi non mancavano, Smith cominciò a fare una vita da nababbo, comprando una villa a Santa Monica da 23 milioni di dollari e causando molte polemiche tra gli impiegati e i giornalisti. Nel 2014 iniziarono a emergere le prime crepe, con un articolo di Gawker che insinuava che i giornalisti di Vice erano sottopagati. Secondo un manager anonimo, a Vice c’era la cosiddetta regola 22: assumere 22enni, pagarli 22mila dollari e farli lavorare 22 ore al giorno.

     

    Così, il valore potenziale della compagnia è cresciuto, arrivando ai fantomatici 5,7 miliardi di dollari nel 2016. A quel punto, per Shane & co, c’era solo una strada: vendere. L’acquirente più ovvio era Disney, che già possedeva una quota della compagnia, e avrebbe rappresentato anche un senso anche commerciale. Solo che quell’affare non si è mai materializzato.

     

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    Non di solo hype vive l’uomo. Per questo, sebbene nell’ambiente editoriale Vice avesse un ruolo manifesto e onnipresente, i numeri non gli davano ragione. L’audience digitale è sempre stato più basso di Vox media o Buzzfeed, nonostante strategie non convenzionali per gonfiare i clic. Sempre nel 2016 Variety scrisse che più della metà del traffico web di Vice proveniva da siti spam come OMGFacts o Distractify. E poi, si diceva, c’è Viceland, che non è mai riuscita a superare l’83esimo posto tra i canali più visti della tv via cavo, mentre Vice on Hbo non superava i 600mila spettatori medi. Canali e strumenti che si rivolgevano a un pubblico giovane, ma che in realtà raccoglievano consensi nella fascia di età dei 40enni. Un piccolo problema che diventa un grande problema.

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    Tutto questo ha portato Smith a una strana condizione: arriva al 2017 senza essere riuscito a vendere la sua compagnia, composta in prevalenza da 20enni e per un pubblico non definito. A gennaio Smith prova a proporre al board un’Ipo, ma nessuno è d’accordo: la quotazione è ancora prematura. In quel momento arrivano altri soldi dal fondo TPG (450 milioni), ma poi inizia a licenziare. Infine, arriva il #metoo.

     

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    Le accuse di molestie pubblicate dal New York Times sono una doccia fredda. Il pizzicotto che sveglia tutti dal torpore e fa accorgere che la compagnia è basata solo (o quasi) sull’hype. Vengono fuori tutti i risentimenti dei dipendenti, tutti concordi nel definire Vice un ambiente eccezionalmente creativo con tantissime opportunità, ma con caos manageriale, lavoro eccessivo e basse paghe.

     

    Smith a quel punto si scusa e promette cambiamenti, anche se non direttamente coinvolto, e studia una exit strategy. A marzo lascia tutto nelle mani di Nancy Dubuc, esperta manager che era riuscita a rivoltare le fortune di History Channel. Intanto, ancora non è certo che il contratto con HBO venga rinnovato. Viceland arranca e secondo un’indagine di Google sui brand meno cool, Vice si piazza al secondo posto. Come ha detto Jann Wenner, fondatore di Rolling Stone: “Quando hai un prodotto che punta ai giovani uomini, tendenzialmente non avrà una lunga vita, perché queste persone vanno avanti con le loro vite. Al prossimo gruppo di 20enni non interesserai”.

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    Cosa sarà del futuro di Vice non si sa ancora. Di certo ora gli manca l’unica cosa che ha creato il successo, anche se gonfiato, anche se fittizio, anche se potenziale di Vice: Shane Smith. L’hype non può durare per sempre. La formula magica di Vice forse non era così magica. O forse sì. Provateci voi, a far credere al mondo che la vostra compagnia vale 6 miliardi di dollari.

     

     

     

     

    VICE, NETFLIX, L’ESTATE PRIMA DELL’AUTUNNO

    Andrea Salvadore per il suo blog, http://www.americanatvblog.com/

     

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    Una lunga inchiesta del New York Magazine su VICE e la storia di copertina dell‘Economist su NETFLIX ci hanno da poco portato dentro il libro delle nostre ( di quanti ? ecco il problema ) visioni. E forse, involontariamente, segnato il passaggio di un testimone.

     

    Ho scritto molto (bene) in passato su questo blog di VICE, “la nuova MTV”. Erano i tempi in cui in cui si diceva che una nuova televisione era possibile. Oggi guardo solo sport, o quasi, in tempo reale. In tempi alla “quando mi va” vedo cosa c’e di nuovo su Netflix ma poi mi addormento dopo la prima pagina (puntata). In costante dialogo con mio figlio, ho ormai la certezza (statistica…) che i palinsesti che vengono presentati in questi giorni siano un’ossatura che riguarda chi ha problemi con le ossa e per questo sta molto sul divano. Chi ha gambe per camminare esce fuori dagli orari canonici e naviga sul computer, ormai si sa.

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    E allora VICE come fa a restare a galla, avendo provato a fare un canale tv tutto suo, oltre ai programmi su HBO ? Il pezzo del New York Magazine si industria a far saltare quello che chiama un bluff, una bolla. Si narrano episodi ricavati da fonti anonime, ecc. Il problema rimane quello piu’ largo, mi sembra, di una fruizione sempre piu’ scomposta, breve, interrotta, nervosa. Per chi ama camere fisse, soggettive lunghe chilometri (eccomi) sono tempi duri. Viviamo nell’era dei droni. Anche sulla testa dei narcisi televisivi che impestano gli schermi.

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    Netflix, che allarga continuamente la sua utenza globale, si indebita, cresce in borsa e che diventa il piu’ grande studio di Hollywood, specchia bene la fase. Piu’ fiction, meno realta’. Per non correre il rischio delle fake news. La competizione dalle parti dello streaming si è fatta intanto feroce. Anche i grandi networks hanno capito che occorre imparare a contare gli spettatori oltre l’elettrodomestico. Per sopravvivere. Noi intanto guardiamo i mondiali aspettando l’autunno della ripresa del campionato, della nuova stagione della NBA, della NFL e perfino delle freccette.

     

     

     

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