Alberto Mattioli per www.lastampa.it
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Tirava una pessima aria, giovedì al Regio di Parma per l’inaugurazione del Festival Verdi con La forza del destino, e non solo perché come tutti sanno l’opera porta scalogna (anzi, ora che l’ho nominata, non la ripeterò più. La prudenza non è mai troppa). I loggionisti locali, notoriamente suscettibili, non hanno gradito che, con una scelta davvero un po’ incauta, alla prima del festivalone cantasse non il Coro locale, del resto eccellente, ma quello del Comunale di Bologna, la cui Orchestra peraltro era in buca.
GIUSEPPE VERDI IN VERSIONE TRANS PER IL POSTER AL FESTIVAL PARMA
E minacciavano da settimane se non da mesi i consueti sfracelli parmigiani, quelle tipiche gazzarre che nascono dalla mitomania per approdare alla mitologia. Si parlava, pare, di fare tanto baccano da non permettere nemmeno allo spettacolo di cominciare. Dall’altra parte della barricata si è avvisato che si sarebbe trattato del reato di interruzione di pubblico servizio.
Sta di fatto che non ho mai visto, prima della Scala a parte, un tale spiegamento di forze dell’ordine, in divisa fuori del teatro e in borghese dentro; né che mi era mai capitato di sentire, fra i soliti annunci altoparlati all’inizio, tipo spegnete i cellulari e non fate foto, anche quello che la sala era videoregistrata.
Alla fine, i contestatori hanno contestato soprattutto il direttore, Roberto Abbado, accusato di essere la longa manus petroniana. Quindi ogni volta che saliva sul podio scatenavano l’inferno con fischi (anche di fischietto, laceranti), urla, improperi vari, veri insulti e così via. Ma almeno gli hooligans si sono astenuti da strillare durante lo spettacolo, come in occasione della gazzarra precedente, quella al Nabucco del ‘19 (lì però ce l’avevano con la regia), segno che la civiltà fa progressi perfino a Parma.
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Qualche momento spassoso, comunque, c’è stato. Segnalo un deamicisiano “Per cantare quest’opera ci vuole cuore!”, un “Impara a cantare!” rivolto alla primadonna (abbastanza condivisibile) e un “Cretini!” tonante ma generico, non ho capito bene se rivolto ai contestatori o ai contestati. Alla fine, però, gli applausi hanno di molto superato i fischi, grazie anche all’azione di quella che è sembrata una robusta claque, e si sa che a pensare male si fa peccato ma anche centro.
Gran finale con lo striscione “Giù le mani dal Regio” appeso al loggione e pioggia di volantini stile Senso: uno in dialetto, un altro con “Vade retro barbari” e il terzo contro il “colonizzatore bolognese”, e qui siamo davvero allo strapaese longanesiano di gloriosa memoria.
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Questo folklore è stato comunque l’aspetto più divertente di una serata abbastanza moscia, dov’è capitato perfino di annoiarsi, dal mio labbro uscì l’empia parola, circostanza che con l’Innominabile è difficile che si verifichi. Al maestro e alla sua orchestra va attribuito intanto il merito del coraggio e del sangue freddo: mantenere la calma sotto l’imperversare dei fischietti non è da poco.
Poi Abbado dirige assai bene, lucido, equilibrato, attento ai dettagli, molto analitico e per nulla retorico. Resta però da vedere se l’equilibrio e la lucidità siano il modo migliore per affrontare quest’opera sperimentale e spericolata, eccessiva in tutto, cui gioverebbe forse più un approccio da “credo quia absurdum” e, insomma, un po’ di sana follia.
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Compagnia nel complesso buona. Ma Liudmyla Monastyrska non ha più quel fiume di voce che ricordavamo, e che faceva dimenticare un passaggio di registro superiore “vuoto” (gli acuti invece ci sono), un italiano incomprensibile e una certa freddezza interpretativa. Tutti in estasi invece per Gregory Kunde che canta Alvaro a 68 anni avendo ancora una voce, benché inaridita e stimbrata, e soprattutto gli acuti.
Benissimo, chapeau a lui, l’impresa è compiuta, ma l’età non è un valore in sé, e magari, trovandolo, la prossima volta si potrebbe scritturare un quarantenne dalla voce integra e possibilmente meno impacciato in scena. Amartuvshin Enkhbat, per tutti “il mongolo” perché viene da lì ed è più facile da pronunciare, ostende una volta di più la voce baritonale più bella e potente di oggi, canta benissimo e interpreta poco.
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Marko Mimica è a posto come Padre Guardiano, anche se il loggionista che è in me vorrebbe un po’ più di volume; pure Annalisa Stroppa, sempre rifinita ed elegante, è leggerina per Preziosilla, e poi se il regista la obbliga alle mossette alzando la gonna a ritmo di Rataplan è chiaro che fare un personaggio credibile diventa impossibile. Il migliore in campo è Roberto De Candia, bravissimo, finalmente un Melitone con la voce e senza caccole.
Se però la serata è andata così così la colpa è dell’imbarazzante spettacolo di Yannis Kokkos, regia e scene e costumi (in locandina c’è anche una drammaturga, ma non si riesce a capire cos’abbia fatto). I teatri italiani sono spaventatissimi da chi fa teatro davvero; quindi, in queste ultime stagioni è tutta un’ostensione di gloriosi e rassicuranti decoratori, delle reliquie degli anni Novanta, appunto Kokkos, De Ana e vedrete che fra un po’ rispolvereranno perfino Pier’Alli.
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Ma questo spettacolo non è nemmeno “tradizionale”: è solo piatto, senza un’idea che sia una, recitato male e pure bruttarello da vedere. Infatti naturalmente non l’ha fischiato nessuno.
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