Milena Gabanelli e Luigi Offeddu per corriere.it
pataccone
«Patacón», così lo battezzarono gli argentini al culmine della grande crisi fra il 2001 e il 2002. O anche, «cuasimoneda»: una pioggia di mini-buoni che avrebbero dovuto saldare i debiti pubblici, affiancando il «peso», la valuta nazionale disastrata. Ma prima ancora, nel 1908 a Bielefeld, in Germania, c’era stato il «Bethel-mark», valuta parallela usata per le compravendite in una grande istituzione che assisteva (e ancora assiste) malati di mente, epilettici, senzatetto, giovani con problemi sociali. O, sempre in Germania nel 1919, la «moneta fisiocratica», un foglietto rosa valido per un anno che tranquillizzava i suoi possessori con un’annotazione sul frontespizio: «Questa moneta vale nel commercio, nelle casse dello Stato e davanti ai tribunali come valore nominale a seconda del mese indicato». E poi: «dicembre 90 marchi, settembre 92 marchi, aprile 97, gennaio 99,50…».
I mini-bot per pagare i debiti
I minibot sono stati proposti dalla Lega, soprattutto dai consiglieri economici di Salvini, Claudio Borghi e Alberto Bagnai, quest’ultimo autore di un noto saggio sul tramonto dell’euro. Oggi il nome di Bagnai circola come quello di futuro Ministro per gli Affari Europei, insieme al sospetto che i minibot siano il primo passo per l’uscita dall’euro. Va detto che l’idea, presente nel contratto di governo, era stata avallata anche dagli altri partiti, Pd compreso. Mario Draghi li ha definiti «valuta illegale o debito», e hanno vari precedenti più o meno simili nella storia: valute parallele, appunto, germogliate in momenti di crisi, destando a volte grandi speranze, spesso grandi timori.
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Utilità del patacòn argentino
L’Argentina degli anni Duemila è la fonte più generosa di esempi. A cominciare dal «patacòn», sostantivo che in spagnolo ha tre significati: un saporoso fritto di banane verdi popolare in tutta l’America latina e nei Caraibi; una montagna tristemente celebre di rifiuti a Panama City; e un tipo di monete e obbligazioni emesse appunto in Argentina e in altri Paesi. Per essere precisi, con il pataccone argentino si intende un buono d’emergenza tecnicamente chiamato anche «Lettera di tesoreria per la cancellazione delle obbligazioni». Banconota rosa che portava l’effigie di Dardo Rocha, governatore della capitale morto nel 1921, visionario dei lavori pubblici divenuto famoso per la sua promessa iniziale: «Dovrò costruire un chilometro di strade per ogni giorno del mio governo». Il pataccone spuntò per la prima volta nella provincia di Buenos Aires. Poi dilagò anche nella capitale. Fu un «male necessario», spiegò la legge, perché gli enti pubblici non potevano più pagare stipendi e lavori, e le imprese non pagavano dipendenti e fornitori. Un «patacòn» equivaleva per convenzione a un peso convertibile. Storicamente, richiamava nel nome i «patacònes», monete d’argento tagliate con le forbici coniate alla fine dell’Ottocento. Ma nella realtà del ventunesimo secolo, era ben altra cosa. Il creditore veniva saldato, lo Stato garantiva, e tutti i cittadini si spartivano il debito. La nuova valuta era un sosia del denaro vero. E anche la parola stampata sulla sua carta era «peso», non pataccone. Venne emesso in tagli da 1,2,5,10, 20, 50, 100, e anche da 50 «centavos» o centesimi. Ma non salvò il galeone dello Stato pieno di falle. Fu solo la lenta ripresa economica, dal 2003, a riaggiustare almeno provvisoriamente la rotta.
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2016: il pataccone va al macero
Prima di allora, tutti i governi provinciali argentini e anche quello nazionale avevano inventato i loro buoni d’emergenza. Nella provincia di Cordoba, ancora nel 2005, circolava la Lecop o «Lettera di cancellazione dei debiti provinciali», per «l’estinzione delle obbligazioni di qualsiasi natura nel settore pubblico». La provincia di Tucumàn aveva già emesso negli anni ’60 i «Certificati di cancellazione del debito nazionale», e nel 1987 gli «Australes di Cancellazione dei debiti», con scritta sul retro: «Che il federalismo alimenti, rossa, e ardente, la cellula della Nazione». Nel 2006, lo Stato cominciò a riscattare quel denaro «fittizio». Nel 2016, la Banca della Provincia di Buenos Aires annunciò che avrebbe mandato al macero 240 tonnellate di patacconi, stivati nei suoi forzieri in cumuli alti fino a due metri: teoricamente erano pari a 176 milioni di dollari, nella realtà erano carta straccia. Però ogni volta che le stampatrici erano entrate in funzione per sfornarli, il debito pubblico era salito inesorabilmente.
Le monete parallele tedesche
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Da un continente all’altro, la disperata Germania di Weimar era fonte continua di esperimenti con le valute parallele. Dopo la crisi di Wall Street, il mondo tremava; a Berlino, due tazze di caffè potevano costare 10.000 marchi al momento dell’ordinazione, e 14.000 cinque minuti dopo, al momento del pagamento. Il marco del Reich era fuori controllo. Un migliaio di imprese, riunite in un’associazione di scambio, crearono il «wara», («valuta stabile», sperando che si estendesse alle finanze statali. Valeva, in teoria, un vecchio marco del Reich, ed era disponibile in mini-banconote da 1,2,5,10 o da mezzo «wara», 50 pfenning o centesimi. Il suo principio di base era l’abolizione dello strumento dell’interesse. Un primo esperimento fu compiuto con una miniera fallita di carbone. Si supponeva che i minatori in bolletta accettassero il «wara» dal loro padrone, i panettieri dai minatori, i mugnai dai panettieri, i banchieri o gli agenti delle tasse dagli uni e dagli altri, e così via. Ma il problema era: come convincere tutti costoro a rischiare, a entrare nel gioco? Facile: non conveniva tenersi la nuova valuta in tasca, perché ogni mese perdeva un centesimo del suo valore nominale. Il tutto fu chiamato «esperimento di libera economia», ed ebbe un certo successo. Finché la Banca Centrale, nel 1931, vietò «l’esperimento».
Dall’Austria alla Svizzera: le «monete deperibili»
Nello stesso anno anche a Woergl, un cittadina del Tirolo austriaco, un ex meccanico delle Ferrovie eletto con un sorteggio dal consiglio comunale sperimentò una «moneta deperibile» (così la chiamarono) simile al «wara»: ogni mese perdeva un poco del suo valore, se non si apponeva il bollino di conferma. Imprese, operai e impiegati venivano pagati con «certificati di lavoro», accettati dai commercianti, ripartirono i lavori pubblici. Anche Vienna si interessò all’esperimento, che però fu troncato nel 1933: solo la Banca di Stato poteva batter moneta. Dal 1934, invece, a Zurigo operò il «Wir», una valuta complementare per piccole e medie imprese.
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Usa anni 30: il «secondo dollaro»
Negli Usa si pensò a un «secondo dollaro» negli anni Trenta, dopo il crollo di Wall Street e le chiusure di molte banche. Con 12 milioni di disoccupati, nacque il «denaro della depressione»: imprese e negozi si misero a stampare in proprio buoni, obbligazioni o certificati di cancellazione del debito. In alcune regioni americane, fu quasi il ritorno al baratto: gente che comprava o vendeva con «monete» di legno, cartone, piombo, con banconote di stoffa e perfino gusci di conchiglie o pergamene realizzate con pelle di pesce. Il governo federale valutò la possibilità di un «secondo dollaro» per alleggerire gli strati più indebitati della società. Ma l’idea fu subito abbandonata.
Italia: la breve vita delle valute regionali
Novant’anni dopo, almeno in Italia, il nuovo dibattito sui minibot risveglia quello antico sulle valute parallele. In attesa delle decisioni a livello nazionale, ci sono già delle forme di valute regionali: per primo nel 2010 è nato il «Sardex», in Sardegna, giudicato «un’istituzione» dalla London School of Economics. E poi il «Valdex» in Val d’Aosta, il «Tibex» nel Lazio, il «Venetex» in Veneto, il «Piemex» in Piemonte, il «Felix» in Campania, e così via. E c’è chi ricorda la valuta creata nel 2000 a Guardiagrele, in Abruzzo, da Giacinto Auriti. Era stata battezzata «Simec», o «Simbolo econometrico di valore indotto». La Guardia di finanza la sequestrò. Ma ha ancora dei seguaci sul Web che la invocano: «La sovranità monetaria va attribuita allo Stato, come quarto potere costituzionale, e tolta alla banca centrale. La proprietà della moneta va attribuita al Popolo, che per convenzione sociale le attribuisce il valore: ognuno infatti accetta moneta in previsione di poterla spendere a sua volta». Ma resta un problema, come ha insegnato l’Argentina: e se quella moneta è un «patacòn»?
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