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    VI SIETE ROTTI LE PALLE DI STARE SOTTO L’OMBRELLONE? COMBATTETE LA CANICOLA A CASA GUARDANDO TUTTO D’UN FIATO QUESTE DIECI SERIE TV – SE NON AVETE ANCORA VISTO “CHERNOBYL” È ARRIVATO IL MOMENTO DI FARLO – SE SIETE APPASSIONATI DI SUPEREROI (O PER MEGLIO DIRE ANTIEROI) “THE BOYS” FA PER VOI, MENTRE SE VI VOLETE ARRAPARE MAGARI SARETE INCURIOSITI DA “THE NAKED DIRECTOR”, LA SERIE SU TORU MURANISHI, REGISTA, ATTORE E PRODUTTORE DI PORNO – GLI APPASSIONATI DI CIBO POSSONO OPTARE PER “FOOD STREET” E…(VIDEO E FOTO PICCANTINE)


     
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    Gianmaria Tammaro per "www.lastampa.it"

     

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    Il piccolo schermo non va mai in vacanza. Non veramente. Solo quest’agosto, saranno disponibili la seconda stagione di “Mindhunter” su Netflix (16 agosto) e “Carnival Row” su Amazon Prime Video (30 agosto). La televisione generalista va in pausa, ammorbandoci con le repliche delle sue fiction.

     

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    E la pay, come Sky, prova a puntare su titoli minori: “Riviera” 2 e “Warrior”. Va detto, però, che c’è così tanta scelta che d’estate la cosa migliore è darsi al recupero: vedere, cioè, tutti quei titoli che, tra una cosa e l’altra, ci siamo persi. Ne abbiamo raccolti dieci (già, solo dieci), e alcuni sono anche molto, molto vecchi. Non c’è nessun ordine in particolare.

     

    “The Naked Director”, Netflix

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    È una serie in 8 puntate ambientata tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, che racconta la storia – e i guai, e l’ascesa – di Toru Muranishi, regista, attore e produttore di porno, diventato famoso per il suo stile “documentaristico”. “The Naked Director” è una produzione originale giapponese, e come tale, nata, cresciuta e pasciuta nel mercato del Giappone, conserva un’identità chiara, dividendosi tra commedia – assurda, surreale, macchinosamente teatrale – e dramma.

     

    Il protagonista, interpretato da Takuyuki Yamada, inizia la sua carriera come venditore porta-a-porta di enciclopedie di inglese. Poi, scoperto il tradimento della moglie, decide di cambiare: si dà all’editoria osé, e dopo un periodo in carcere esordisce come regista (e protagonista) di video pornografici.

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    “The Boys”, Amazon Prime Video 

    Non è la tipica serie sui supereroi. C’è tanta violenza e c’è tanta azione, e i protagonisti – i “boys” del titolo – non sono eroi, ma antieroi; e danno la caccia ai supereroi più corrotti e potenti della Terra. Amazon, recentemente, ha fatto sapere che “The Boys” è uno dei titoli più visti della sua piattaforma: non ha citato i numeri (e, molto probabilmente, continuerà a non citarli); ma il fatto che una serie uscita da relativamente poco sia già arrivata sulla vetta del binge watching di Prime Video è interessante.

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    La storia, che si ispira all’omonimo fumetto di Garth Ennis e di Darick Robertson, qui in Italia edito da Panini Comics, non solo mette a nudo lo stereotipo del supereroe. Ma critica, e anche piuttosto duramente, il sistema in cui viviamo: il successo, i social media; quello che siamo pronti a perdonare a chi è famoso.

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    “La Linea Verticale”, Raiplay

    Lo scorso 19 luglio Mattia Torre, scrittore e sceneggiatore, registae artista della parola, è scomparso. E “La linea verticale”, la sua ultima serie, è una delle comedy migliori, meglio scritte e più sincere degli ultimi anni.

     

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    I protagonisti sono interpretati da Valerio Mastandrea e Greta Scarano, e la storia è un po’ di quella vita che Torre, nel corso degli anni, ha vissuto. Si parla di malattia, si parla di cancro; si parla dell’esperienza in un reparto d’eccellenza, circondati dal microcosmo dei malati e dei medici; e si parla, soprattutto, di noi. Della speranza dopo il dolore, e della luce che c’è, c’è sempre, alla fine del tunnel.

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    “Legion” 3, Fox Italia

    Non c’è, forse, serie più “libera” in televisione. Più assurda, più surreale, più onirica; e, contemporaneamente, più intelligente. Buona parte del merito è di Noah Hawley, il creatore, che ha confessato di non aver avuto tempo, né modo per allineare la sua “Legion” all’universo Marvel.

     

    È una cosa a sé, quindi. Un animale selvatico e feroce. La terza stagione è l’ultima. Qui in Italia è andata in onda su Fox, e ora è disponibile su NowTv. Difficilmente, anche in futuro, vedremo cose più sperimentali e sfrenate. E c’entrano poco i superpoteri, o l’incredibile genesi del protagonista, David, aka Legione (interpretato da Dan Stevens). Qui si parla di pazzia, e di stare al mondo, di famiglia, di amore e, sopra ogni cosa, di dolore.

     

    “Food Street”, Netflix

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    È una delle docu-serie più belle, e lo diciamo senza esagerare, di quest’anno. Non è come “Chef’s Table”, perché i protagonisti non sono cuochi affermati (o meglio: non sono cuochi famosi e famigerati). È qualcosa di più, di diverso, di più viscerale. Ogni episodio racconta una storia, e ogni storia si concentra su un cuoco e su una tradizione. Siamo in Asia.

     

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    E la cosa più straordinaria è come la cultura culinaria di un paese finisca per coincidere con la vita di alcune persone. Ogni episodio va da sé. Non c’è bisogno di vederli tutti. Ma ognuno, a modo suo, regala qualcosa. Non è una serie sulla cucina e sul cibo; è una serie su chi sta dietro ai fornelli, sul talento, sui cuochi-eroi dello street food.

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    “Fleabag” 2, Amazon Prime Video 

    Finalmente Phoebe Waller-Bridge, la creatrice di “Fleabag” (e protagonista, e scrittrice), sta ricevendo l’attenzione e il riconoscimento che merita. È tra i papabilissimi ai prossimi Emmy Awards, e la TCA – l’associazione dei critici televisivi, cioè – le ha assegnato tre dei premi più ambiti, tra cui quello per il programma dell’anno.

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    Quello che “Fleabag” racconta, e mette in scena, e poi a nudo, è la storia di una ragazza, di una donna, che vive la sua vita in una Londra contemporanea e rumorosa e precaria, che si innamora, che soffre, che ha un rapporto disfunzionale con la sua famiglia (con la compagna di suo padre, in particolare).

     

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    E poi, siccome l’idea originale è nata da uno spettacolo teatrale, conserva anche quella scintilla tipica del palcoscenico: la Waller-Bridge si volta, guarda in camera e, sfondando la quarta parete, parla al pubblico.

     

    “Too old to die young”, Amazon Prime Video

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    Sappiamo già che di “Too old to die young” di Nicolas Winding Refn non ci sarà una seconda stagione. Perché, dicono da Amazon, è troppo di nicchia, e non raggiungerà mai il pubblico mainstream che la piattaforma sta cercando di raccogliere.

     

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    Poco male. La prima stagione – coloratissima, illuminata come un artmovie, bella, complicata, e piena di trovate “refniana” – basta e avanza; ha un finale aperto, è vero, ma è uno di quei finali che funzionano perfettamente, che lasciano in sospeso una domanda e che, come nella migliore tradizione, invitano lo spettatore a farsi domande, a proseguire da solo e a non fermarsi all’ultimo episodio. E poi: c’è lo scontro tra uomini e donne; c’è la politica americana; c’è l’America (società) e c’è la sua crisi, e c’è il Messico, i più giovani, la violenza e il sesso.

     

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    “Chernobyl”, NowTv/Sky on demand

    È una miniserie ed è, al momento, tra le cose migliori che sono andate in onda quest’anno. E non perché, come suggerisce qualcuno, racconta la tragedia di Chernobyl, della centrale nucleare, in modo preciso e fedele (c’è un elemento documentaristico, ma ce n’è pure uno di finzione, ottimo per la messa in scena).

     

    “Chernobyl” è complicata, ben pensata, scritta splendidamente, ricca di un cast d’attori di prim’ordine, come Jared Harris; riesce a restituire la dimensione e la realtà sovietiche. Il tema di fondo, assoluto e immortale, è la verità e quello che le bugie finiscono per fare non solo a noi, o a quelli che le dicono; ma anche a tutti quelli che ci stanno attorno.

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    “L’amica geniale”, TimVision

    In questi mesi sono in corso le riprese della seconda stagione, sottotitolata “Storia del nuovo cognome”. Non sarà disponibile, com’è successo alla prima, su TimVision. Ma solo su Rai1 e Raiplay. “L’amica geniale” di Saverio Costanzo è, senza esagerare, la produzione migliore andata in onda, in queste ultime stagioni, sulla televisione pubblica.

     

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    Lo è per tanti motivi, non solo perché è la trasposizione sul piccolo schermo del romanzo di Elena Ferrante. Ma anche perché è una bellissima storia d’amicizia, per le sue giovanissime attrici, e perché parla dell’Italia e di come, negli anni, sia cambiata. E parla anche di talento e di costanza, che sono le due facce della stessa medaglia.

     

    “Love death + robots”, Netflix

    È una serie antologica. Il che significa che ogni corto – perché sì, ogni episodio è un cortometraggio, tra i cinque e i trenta minuti – racconta una storia, e lo fa con uno stile grafico diverso e un approccio alternativo all’animazione. C’è il 2D e c’è il 3D. Ci sono ricostruzioni fedelissimi e realistiche, e ci sono anche disegni più cartooneschi, abbozzati, parodistici.

     

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    A capo di questo progetto (che tornerà con una seconda stagione) ci sono due dei talenti più folgoranti dell’audiovisivo: David Fincher e Tim Miller. La loro idea non è solo quella di sperimentare e di portare al limite (è possibile?) l’animazione; ma pure di rivoluzionare il modo in cui certi contenuti, su smartphone e in streaming, vengono visti e fruiti dallo spettatore.

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