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    ALLA VIGILIA DELLA GIORNATA INTERNAZIONALE SULLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO CONDANNA TRE GIUDICI ITALIANI: NEL GIUDICARE UNO STUPRO DI GRUPPO AVEVANO ARGUITO CHE "GLI ATTEGGIAMENTI O LE SCELTE SESSUALI DI UNA DONNA ANTECEDENTI A UNO STUPRO RENDONO QUELLA STESSA DONNA NON ATTENDIBILE NELLA SUA DEPOSIZIONE SU CIÒ CHE DENUNCIA DI AVER SUBITO" - IL 63% DELLE DONNE NASCONDE LE VIOLENZE: SOLO UNA SU 7 AVEVA DENUNCIATO IL SUO ASSASSINO...


     
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    Elisabetta Reguitti per articolo21.org

     

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    Indossare uno slip rosso che spunta mentre cavalca un toro meccanico in un locale pubblico, aver partecipato come attrice a un cortometraggio “intriso di scene di sesso e violenza che la donna aveva dimostrato di reggere senza problemi” e ancora che il comportamento e le esperienze prima e dopo i fatti dimostrassero che nei confronti del sesso la vittima  avesse  un atteggiamento ambivalente; comportamenti “disinvolti e provocatori”.

     

    Tutto ciò – e molto altro – ha portato letteralmente a un capovolgimento da  sentenza di condanna a 4 anni e 6 mesi per violenza sessuale di gruppo aggravata dall’inferiorità fisica, in assoluzione piena.

     

    Per essere più chiari: gli atteggiamenti o le scelte sessuali di una donna antecedenti a uno stupro rendono quella stessa donna non attendibile nella sua deposizione su ciò che denuncia di aver subito.

     

     

    Questa è la sintesi di una sentenza emessa da tre giudici italiani di Corte d’appello di Firenze nel giudicare uno stupro di gruppo: testo nel quale venivano riprodotti stereotipi sessisti e veicolato “pregiudizi sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che sono suscettibili di costituire un ostacolo a una protezione effettiva dei diritti delle vittime di violenza di genere”.

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    TUTTO SCRITTO NEL PRONUNCIAMENTO DI CONDANNA nei confronti delle Autorità italiane emesso dopo 13 anni dalla Corte Edu (Corte europea dei diritti dell’uomo) in un giudizio passato in sordina ma che chiunque può andarsi a leggere: ricorso nr 5671/16 – Causa J.L contro l’Italia che dovrà, per l’appunto, risarcire una donna (che all’epoca dei fatti aveva 22 anni) che si è rivolta in sede europea.

     

    E’ una sentenza  passata sotto silenzio nonostante la sua grande rilevanza e che segna una linea di demarcazione: non solo  da oggi in poi le vittime possono appellarsi anche a questo giudizio;  anche il legislatore potrebbe coglierla come momento di riflessione per una specifica legge.

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    Ma andiamo per ordine e soprattutto evidenziamo l’aspetto che, secondo Maria Letizia Mannella Procuratore aggiunto e capo del V dipartimento – tutela della famiglia, dei minori e dei soggetti deboli -, della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, è fondamentale rispetto alle “affermazioni colpevolizzanti e moralizzatrici che troppo spesso si sentono nella aule di giustizia.

    Situazioni in cui troppe volte alla persona offesa vengono rivolte domande come se fosse l’indagata”.

     

    Mannella sottolinea il peso della “vittimizzazione secondaria” in cui la donna che ha subito uno stupro dovrebbe combaciare con quella che nell’immaginario collettivo dovrebbe essere la figura della “vittima ideale”; magari vestita in modo ineccepibile, non appariscente, senza trucco che viene aggredita e violentata alle cinque del pomeriggio da uno sconosciuto, che  soprattutto denuncia subito e che si comporta da vittima.

     

    Molto spesso non è così, perché chi subisce violenza nella maggior parte dei casi cerca di fare finta che non sia accaduto nulla.

     

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    Non a caso il legislatore nel Codice Rosso ha allungato a un anno il tempo nel quale una vittima può presentare querela. Nello stupro di gruppo preso in esame dalla Corte Edu, viene sottolineato come la Corte d’appello fiorentina abbia valutato la donna sulla base di talune fantasie maschili in cui la donna è un oggetto privo di volontà di cui disporre senza limiti.

     

    Negli atti del processo figurano le deposizioni di testimoni che raccontano di aver visto la giovane donna che non sembrava in grado di opporre la minima resistenza, sotto l’effetto dell’alcool, non più in grado di camminare e condotta fuori dal locale da due uomini che la palpeggiavano nelle parti intime che rispondendo ai testimoni preoccupati per ciò a cui stavano assistendo avevano risposto: “Non è colpa nostra se è porca”.

     

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    NEL MERITO DELLA SENTENZA EDU, LA PM MANNELLA  sottolinea come sia stata data grande rilevanza al fatto che “i giudici italiani si siano espressi e abbiano dato delle valutazioni sulla base di stereotipi perché hanno puntato l’accento sulla scelte di vita precedenti della persona che ha denunciato e le hanno tenute in considerazione per valutare la sua attendibilità rispetto a ciò che denunciava essere accaduto. Che aver adottato questi comportamenti, non la facesse ritenere pienamente attendibile, in particolare hanno poi usato come elemento di inattendibilità il tipo di biancheria intima e il fatto che lei si fosse messa a ballare sul toro meccanico.

     

    La donna è stata quindi valutata sulla base di tutto ciò. Bene ha fatto quindi la Corte europea – rincara Mannella – a ritenere la violazione dell’articolo 8 della Convenzione cioè del diritto del rispetto della vita privata e familiare della vittima. Questa sentenza è importantissima – assicura – perché è la prima volta che una Corte sovranazionale europea condanna uno Stato per aver espresso pregiudizi sessisti”.

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    Un pronunciamento da parte delle Autorità europee “di condanna di atteggiamenti che ritroviamo spessissimo nelle aule giudiziarie” prosegue ricordando poi come tutto ciò che abbiamo raccontato fino a ora ha deposto a favore di un totale capovolgimento del processo e nell’assoluzione dei sei uomini – più il conoscente della ragazza – abusata peraltro in una situazione di inferiorità fisica dovuto all’uso  di bevande alcoliche.

     

    IL SILENZIO, LA PAURA: SOLO UNA DONNA SU 7 AVEVA DENUNCIATO IL SUO ASSASSINO

    Giusi Fasano per il “Corriere della Sera”

     

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    Hanno subito tutto in silenzio e in solitudine, fino alla fine. Magari si erano rassegnate a quella vita, forse avevano semplicemente paura di parlarne, o forse non avevano alcuna fiducia nell'aiuto del mondo e del sistema Giustizia. Non lo sapremo mai, perché sono tutte morte. Quello che sappiamo è che non soltanto non avevano denunciato di subire violenza ma non ne avevano nemmeno mai fatto parola con nessuno.

     

    Stiamo parlando del 63% delle donne uccise negli anni 2017-2018: nessuna di loro (e sono 123) aveva mai confidato a qualcuno di essere in difficoltà, di temere per la propria vita, di subire maltrattamenti. Mai una denuncia, appunto. Fondotinta per coprire i lividi, sorrisi per nascondere paura e tristezza e avanti così, fino all'ultimo battito di cuore. Quel 63% è uno dei dati più sorprendenti della relazione appena approvata dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul femminicidio presieduta dalla senatrice Valeria Valente.

     

    La «fotografia»

    I commissari, aiutati da molti consulenti, scattano una fotografia ad alta definizione agli uomini che uccidono le donne e a tutto quello che avviene prima, dopo, attorno ai meri fatti di cronaca.

     

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    Ma soprattutto, fanno il punto sulla risposta giudiziaria ai femminicidi nel nostro Paese: la relazione fra autori e vittime del reato, le indagini della polizia giudiziaria, quelle degli uffici delle procure, il sistema di protezione delle vittime (giudiziario, sociale, delle reti del territorio), eventuali denunce precedenti, i giudizi penali e le sentenze... Si scopre così che, nei due anni considerati, soltanto il 15% delle donne uccise (circa 1 su 7) aveva denunciato l'uomo che poi le avrebbe ammazzate, il rimanente 85% o aveva subito in silenzio o ne aveva accennato a persone a loro vicine.

     

    Per questa indagine la Commissione ha chiesto alle Corti d'Appello, e ha studiato, tutti i fascicoli processuali degli omicidi di donne avvenuti nel 2017 e 2018. Totale: 273. Ma quando si può parlare di femminicidio? Si è presa in prestito la risoluzione del Parlamento europeo del 28 novembre 2019 secondo cui si definisce così la «morte violenta dipesa da motivi di genere» oppure (ha aggiunto la Commissione) per i casi «in cui l'uomo ha ucciso le figlie della donna con l'unica finalità di punire lei». Al netto degli omicidi volontari diversi, quindi, i casi di femminicidio sono stati 216, ma siccome per 19 procedimenti il presunto autore è stato assolto, il numero scende a 197.

     

    Gli orfani

    Sono - erano - 197 donne che avevano figli, spesso molto piccoli e già spettatori di una violenza cieca: se ne sono andate lasciando 169 orfani e quasi la metà di loro aveva assistito a scene violente prima che la madre fosse uccisa, per non parlare di quei 29 sopravvissuti (il 17,2% e in gran parte minorenni) che invece hanno visto la madre morire. Dagli interventi della polizia giudiziaria emergono «criticità», come le chiama il dossier della Commissione, che sembravano sepolte da tempo.

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    Per esempio il fatto che «nei centri più piccoli in cui dovrebbe essere proprio il fattore della conoscenza personale ad aiutare nella lettura della violenza e del rischio», alcune delle donne uccise hanno chiesto aiuto alle forze dell'ordine «rappresentando la paura e la difficoltà di denunciare o la presenza di armi» e «sono state dissuase dal farlo», sono «state rassicurate e rimandate a casa».

     

    Di più: «in alcuni dei casi considerati le forze di polizia, non distinguendo tra violenza domestica e lite familiare, nonostante il tangibile terrore della donna, si sono limitate a "calmare gli animi"(come si legge testualmente nelle annotazioni di servizio)».

    Letizia Mannella Letizia Mannella

     

    Ai pubblici ministeri la Commissione rimprovera, diciamo così, «una difficoltà a riconoscere la violenza nelle relazioni intime» e una «non adeguata conoscenza dei fattori di rischio». Sentenze e linguaggio Fra i consulenti voluti dalla Commissione c'erano anche i magistrati Paola Di Nicola Travaglini, Fabio Roia e Maria Monteleone. E soprattutto loro hanno messo a fuoco il passaggio sul linguaggio usato nelle sentenze e nelle archiviazioni.

     

    «Spesso - dice la relazione - la pregressa condotta violenta dell'uomo viene definita "relazione burrascosa, tumultuosa, turbolenta, instabile...", anche a fronte di precedenti denunce della vittima per gravi maltrattamenti.(...) Molte sentenze non assumono un'analisi di genere e tale mancata prospettiva rappresenta un limite.

     

    Ad esempio, le vittime di femminicidio vengono spesso chiamate per nome, gli imputati per cognome, così generando una discriminazione, anche linguistica e simbolica, non giuridicamente giustificabile; le vittime di femminicidio non sono descritte rispetto al loro contesto sociale e/o professionale, ma indicate come madri, mogli e figlie, cioè rispetto al loro ruolo familiare; quando svolgono attività di prostituzione vengono chiamate prostitute e non con nome e cognome, così vittimizzandole e stigmatizzandole».

    VALERIA VALENTE VALERIA VALENTE

     

    L'inchiesta si chiude con una lista dei sogni, cioè possibili «correttivi delle norme vigenti». Uno fra i tanti: l'obbligo di applicare il braccialetto elettronico se si decide una misura diversa dal carcere.

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

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