Lettera di Alberto Infelise a Dagospia
paolo zaccagnini
Io mi ricordo il momento esatto in cui ho visto Paolo Zaccagnini per la prima volta. Ero in un corridoio del Messaggero, appena arrivato per il mio stage in redazione. Avevo chiesto di essere assegnato agli spettacoli per poter lavorare con lui, Molendini e Zampa. Forse nemmeno per poter lavorare, ma per poterli vedere da vicino.
Paolo (s’era a inizio giugno) portava un vestito grigio scuro piuttosto pesante, camminava con l’aria incazzata per un corridoio, rimuginando non so che cosa a voce abbastanza alta perché si sentisse che rimuginava, ma troppo bassa per capire che su che cosa stesse cristonando. Avevo 22 anni, mi presentai dandogli del lei. Mi disse “damme del tu, nun fa lo stronzo”.
Alberto Infelise
Zacca da vicino era esattamente come da lontano: una montagna di conoscenza. Sapeva tutto. Di musica, certo, ma anche del grande cinema, della letteratura americana del Novecento (soprattutto), della politica, della cronaca. Era, per vocazione, un maestro.
moretti paolo zaccagnini
Venne il giorno in cui gli dovetti portare il mio primo pezzo. Allora i pezzi si stampavano per portarli a leggere al caposervizio. Così scrissi, tutto tremante, e glielo portai. Paolo lo prese, senza alzare lo sguardo dalla sua scrivania. Manco lo lesse. Lo strappò in due. “Rifallo”. Senza guardarmi. Tornai al mio posto, col cuore in gola. Riscrissi cercando di metterci tutte le notizie che sapevo, nello stile migliore che potevo. Ci misi più tempo, lo rilessi, lo ristampai, glielo riportai.
paolo zaccagnini
Lo prese tra le mani, nemmeno lo guardò, ridisse: “Rifallo”. Ero sul punto di piangere, di gridare, di scappare e tornare agli studi di storia della chiesa medievale e dei movimenti ereticali da cui venivo. Ma mi rimisi a scrivere, sudando, sputando sangue e denti, pregando i santi patroni, ristampai, rilessi, corressi ancora e ristampai. Glielo riportai. Paolo allungò la mano, mi guardò negli occhi, sbuffò, iniziò a leggere. Fece qualche correzione a matita e mi ridiede il pezzo. “Bravo, volevo vedere se eri uno stronzo. Fai queste correzioni e andiamo a mangiare”.
DAGO ZACCAGNINI
Da allora ebbe per me un affetto che non meritavo ma di cui ho goduto più di quanto lui possa immaginare. Lo ascoltavo raccontare, parlare di questo o quel libro o disco, cercava con le sue storie e i suoi consigli soprattutto di non farmi diventare stronzo. E questo per Paolo è fondamentale. Non ho conosciuto nei 25 anni passati da allora altre persone più ferocemente pulite, etiche, indisponibili al compromesso, incapaci di mediare se mediare significa dirazzare dai propri valori o far del male a qualcuno di più debole. La sua vita e soprattutto la sua carriera lo dimostrano.
paolo zaccagnini
ecce bombo - paolo zaccagnini
Così Paolo contestava da cima a fondo ogni errore nei pezzi che scrivevamo, ci spiegava dove dovevamo fare meglio e quanto fossimo paraculi a rubare quella costruzione al grande scrittore o al grande giornalista, ne rideva e cancellava, per lasciarti crescere e credere a uno stile tuo. Il privilegio massimo fu capire un giorno di aver guadagnato un po’ della sua stima.
chuck berry paolo zaccagnini
Mi chiese di leggere un suo pezzo. Lui a me. E di non fare lo stronzo e dire davvero se c’era qualcosa da cambiare. E ovviamente non c’era, anche se avventurarsi in un pezzo di Paolo per correggerlo è un’avventura dall’esito incerto. La sua prosa procede come un flusso continuo e incontenibile di stimoli, di immagini, di subordinate e coordinate, di partenze e di ritorni improvvisi. Quando si parte per un pezzo di Paolo si sa da dove si comincia, ma non dove si possa andare a finire. Così mi chiamava dai concerti per dettare a me i suoi pezzi e sembrava di avere al telefono Burroughs.
paolo zaccagnini
E poi c’era la vita quotidiana in quella redazione Spettacoli del Messaggero di cui lui era con Molendini il padrone. Potevano andare avanti per ore a cazzeggiare di un cazzeggio altissimo, chiamandosi, cercandosi, alternando vocine a vocioni, sfottendo quel collega o quell’altro (sempre e solo se erano presenti), alternando battute ricercate su romanzi e testi di canzoni ad altre da avanspettacolo con un milione e più di rime in -azzo -ulo -ica. Poi alzavano il telefono e dall’altra parte del filo c’erano Springsteen, Little Steven, Lou Reed, Caetano Veloso, Paolo Conte e se eri così fortunato come modestamente lo fui te ne potevi stare ad ascoltare e a prendere appunti come fosse l’università. E lo era.
Renato, Carla Vistarini, Paolo Zaccagnini, Dago
Ma nessun racconto su Paolo può esistere senza dire anche che Paolo è più di tutto un uomo con un cuore gigante che se vuole bene a qualcuno gli vuole bene fino alla morte, in tutto e per tutto. E paga lui i conti, e fa lui da scudo ai pericoli e le intemperie, e dà consigli, e dice questa fidanzata sì e questa no (ed era difficile che sbagliasse), e ti porta ovunque per Roma ai concerti agli incontri con gli scrittori senza smettere mai di essere paterno e divertente, ma severo quando sbagli, o forse non severo ma dritto, inequivocabile.
paolo zaccagnini
Quando me ne andai dal Messaggero mi disse che facevo bene, che non c’era posto per me lì, e aveva ragione anche se allora soffrii tantissimo perché quella era casa mia o almeno speravo che lo sarebbe diventata.
Capita ancora a qualche concerto di sentirmi chiamare da lontano, l’ultima volta fuori da San Siro, ovviamente per Bruce, “Albertì!” ed è Zacca che mi viene incontro sorridente, a braccia aperte, gli occhi grandi, pronto a stringermi. Perché sa che io, come tanti altri, gli voglio un bene enorme e so che lui ne vuole a me. Forse perché sa che ce l’ho messa tutta per non diventare uno stronzo.
moretti e paolo zaccagnini