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    SIAMO TUTTI 'BIRDMAN' - IÑÁRRITU: "IL FILM MI HA LIBERATO. PARLA DI NOI, DI CHI DIAVOLO SIAMO, CREATURE PATETICHE E ADORABILI" - ORA GIRA "THE REVENANT" CON LEO DI CAPRIO, CHE CON LUI SPERA FINALMENTE DI ACCHIAPPARE L'OSCAR


     
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    Juan Martínez Ahrens per "El País Semanal"

    Traduzione di Luis E. Moriones per "la Repubblica"

     

    Ancorata nel porto di Veracruz, la Toluca, un mercantile, arruolò nel 1980 un ragazzo di diciassette anni dai capelli nerissimi che cercava di mettere un oceano tra il suo passato e il suo presente. Pochi mesi prima Alejandro González Iñárritu era scappato di casa con una donna più grande di lui. La fuga fu un disastro: lui si smarrì, fu espulso da scuola e, sotto il sole tropicale, finì per imbarcarsi sulla Toluca dove ti davano cibo e trasporto se pulivi il ponte e davi il grasso in sala macchine.

     

    LEONARDO DI CAPRIO THE REVENANT LEONARDO DI CAPRIO THE REVENANT

    A bordo della nave risalì il Mississippi, scoprì Barcellona e toccò la Toscana e la Sicilia. Poi arrivò a Bilbao, vendemmiò a Toledo, dormì all’aperto nel Parco del Retiro di Madrid e, alla fine, andò in Marocco. Senza saperlo, dentro di lui si era disegnata la geografia della sua opera. L’impronta sulla quale si sarebbe mosso, nel corso degli anni, il seme dei suoi film. Quella donna, non l’ha più rivista.

     

    Sono passati quasi trentacinque anni, la Toluca da tempo è stata demolita e quel ragazzo, coi suoi cinque film, ha ottenuto ventuno nomination agli Oscar vincendone quattro con l’ultimo Birdman, dopo aver conquistato il premio per la regia a Cannes con Babel nel 2006, unico messicano nella storia della Palma d’oro. Dice: «La competizione nell’arte è assurda. Non voglio attribuirgli una logica e dire: “Sono il migliore e vinco perché lo merito”. Se pensassi così finirei col perdere la testa».

     

    ALEJANDRO GONZALEZ INARRITU CON EMMA STONE ALEJANDRO GONZALEZ INARRITU CON EMMA STONE

    Sulle rive del fiume Bow, nella grande piana canadese di Calgary, il sole sembra appena uscito dal congelatore. La temperatura sarebbe intorno ai 30 sotto zero, se non fosse per il caldo chinook, l’unico vento in grado di frenare le terribili masse d’aria artiche. Il suo soffio agita i pioppi nudi, sotto la cui ombra si svolge un simulacro di morte.

     

    Sulla neve c’è un sangue troppo rosso per essere sangue, un fantasma indiano imbrattato di cenere a cui piace, nel pomeriggio, ascoltare la musica un po’ noiosa di Herbie Hancock e, soprattutto, un tipo con gli occhi acquosi e i capelli biondi che sembra Leonardo Di-Caprio, e recita (o almeno ci prova) come lui, ma non è Leonardo DiCaprio. Sono solo sosia, come il sangue o il fantasma, ma che oggi, sotto la brezza del chinook, servono per preparare le scene che si gireranno quando arriverà il vero DiCaprio. Alejandro González Iñárritu dirige sulle rive del Bow ghiacciato.

    alejandro gonzalez INARRITU alejandro gonzalez INARRITU

     

    Ha cinquantuno anni ed è ancora imbarcato nel suo viaggio interiore. Bronzeo, con una barba alla Velázquez, la sua voce potente tira i fili della trama. Oggi bisognava girare un massacro in un villaggio indiano, un dialogo tra due cacciatori nel 1823 e un incubo con fantasmi e teste scuoiate. Tre scene che fanno parte di The Revenant, il suo prossimo film. Un pre-western con spazi aperti e silenzi tesi. Il suo primo film storico, girato in condizioni estreme. Dice: «Mi eccita poter fallire».

     

    Al suo fianco cammina il direttore della fotografia Emmanuel Lubezki, già vincitore di un Oscar per Gravity e ora di un altro per Birdman. Tra loro si chiamano con i rispettivi soprannomi: Negro (Iñárritu) e Chivo (Lubezki). Due vecchi amici di Città del Messico. Si rivolgono alla troupe in un perfetto inglese, ma quando devono discutere degli aspetti fondamentali si appartano e, in piedi in mezzo alla neve, parlano in spagnolo mentre gli altri membri della troupe, immobili, attendono la decisione che poi eseguiranno sotto gli ordini del solo Iñárritu.

     

    «Sono molto duro, molto militante, molto esigente; mi temono più di quanto non mi amino. La troupe sa che non ci sarà tregua. Però riesco a entrare in contatto con loro, perché non pretendo nulla che io stesso non dia e perché l’esperienza crea una catarsi, porta a una profonda conoscenza delle capacità di ognuno di noi. Chiunque può fare un film, ma riuscire a farne uno buono è dichiarare una guerra all’ultimo sangue, soprattutto a se stessi. Per questo mi fa paura ogni volta che ne comincio uno. Perché non lo mollo».

    INARRITU E KEATON INARRITU E KEATON

     

    La notte è chiara a Calgary. Nel centro della città, Iñárritu si è installato al venticinquesimo piano di un edificio in vetro e acciaio. È un appartamento con tonalità sul marrone, asettico e funzionale. L’arredamento, senza pretese, denota una comoda provvisorietà, perfetta per un nomade sceso in calzini dal Suv che lo ha riportato “a casa” dal set. Si serve un Campari con molto ghiaccio, tira fuori una sigaretta elettronica che collega al Mac e si mette comodo sul divano per rispondere alle domande. Le sue frasi sono articolate. La voce, profonda, tradisce una modulazione radiofonica ma suona sincera. A volte, prima di parlare, medita. Lunghi secondi finché cesella l’idea. Poi la snocciola sicuro.

     

    Come spiega il suo successo?

    alejandro gonzalez inarritu con famiglia alejandro gonzalez inarritu con famiglia

    «È difficile da spiegare, non posso essere obiettivo. In un mondo in cui regna l’ironia, dove ci si deve separare, proteggere e ridere di tutto ciò che è onesto o abbia una carica emotiva, io scommetto sulla catarsi. Mi piace investire emotivamente nelle cose. E la catarsi, quando si tocca la vena emotiva, è capace di aprire le porte anche di quelli che si proteggono ».

     

    Anche se Birdman trabocca di umorismo, i suoi personaggi si muovono nell’amarezza. Lei è pessimista, disincantato?

    «Si può definire l’intelligenza come la possibilità di avere due idee opposte simultaneamente e avere la capacità di agire. Vivo con una contraddizione costante che si traduce nel mio lavoro. Mi posso svuotare rapidamente e riempire di un vuoto esistenziale. In questo senso, sono un uomo che vede più le perdite che i guadagni, sono ossessionato dalla perdita, perché mi fa male perdere quello che ho avuto».

     

    alejandro gonzalez inarritu oscar per birdman alejandro gonzalez inarritu oscar per birdman

    Iñárritu batte l’indice sulla sua sigaretta dall’aspetto galattico. Aspira, dà un altro colpetto, aspira. Niente. Non funziona. La ricollega al Mac. «Ci riproveremo dopo». Non sembra darsi per vinto facilmente. Quelli che lo conoscono dicono che non lo fa mai. Forse è una forza che ha ereditato dal padre, un banchiere che fallì e si rimise in piedi vendendo frutta, o dalla propria esperienza iniziatica, nella quale esorcizzò un amore attraversando l’oceano.

     

    È stato conduttore radiofonico, ha diretto la più importante stazione musicale della capitale e si è dedicato alla musica («sono più musicologo che cinefilo »). Ma né avere una sua band, né comporre la colonna sonora di sei film gli bastava. Non era un virtuoso. «Ho le dita goffe», confessa. Il cinema gli apparve come l’unica soluzione. Annunci pubblicitari, cortometraggi, televisione.

     

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    Le ore trascorse alla Cineteca Nacional a impregnarsi di neorealismo italiano, il Dna del suo cinema, fecero il resto. Studiò regia teatrale con il leggendario Ludwik Margules, un tirannico maestro che gli ha inculcato la necessità di tenere sotto il suo stivale ogni millimetro della scena e di farlo con uno spirito rinascimentale. «Nulla può sfuggire, sono responsabile di tutto, devo sapere tutto».

     

    Cominciava a emergere il demiurgo. L’alleanza con lo sceneggiatore Guillermo Arriaga completò questo processo. Nel 2000 ci fu la prima dello straziante Amores perros, poi venne 2-1 grammi ( 2003) Babel ( 2006), Biutiful (2010) e ora Birdman. Il tempo lo ha reso più posato. Il suo sguardo vulcanico si acquieta. Può sedersi, come spiega, «sulla riva del fiume a guardare il travolgente flusso dei pensieri e dei sentimenti. Dicevano che i quarant’anni erano duri, anche se non me ne sono nemmeno accorto quando li ho compiuti. Ma con i cinquanta sono entrato in una profonda malinconia. Continuo a navigare in quella nube dove cominciano a spegnersi le luci della festa. Ma non mi preoccupa il passato, quanto ciò che perderò nuovamente».

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    Birdman è figlio di questo crepuscolo. Nell’avvicinarsi al mezzo secolo di vita, Iñárritu ha cercato un porto nella meditazione Zen. Ha partecipato a un ritiro. Si è messo in ascolto delle sue voci interiori, soprattutto quella che fa di lui il centro dell’universo nelle riprese, dalla quale si irradia quel fascino magnetico che i suoi amici gli riconoscono. «Quella voce inquisitrice», spiega il regista, «che io chiamo il Torquemada interiore, uno che ogni caso che gli presenti te lo manda al rogo, un terrorista con il quale è impossibile qualsiasi trattativa». Questa voce è la chiave di Birdman. Sulla sua impronta Iñárritu ha costruito un film quasi sperimentale, impostato su giganteschi piani-sequenza, in continuo movimento sull’orlo del baratro.

     

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    La sua è una commedia agrodolce (lei dice “a non funny commedy”) in cui c’è un forte ripasso della sua vita: un attore che negli anni passati era diventato un divo interpretando un supereroe si gioca tutto in uno spettacolo teatrale a Broadway, ma con l’avvicinarsi della prima, quest’uomo, che ha ormai superato i cinquanta, tormentato dalla sua voce interiore, affronta il suo passato, la sua famiglia, se stesso. La perplessità dell’arte.

     

    « Birdman è un film che ha ali che mi hanno liberato. Ho cambiato il modo di affrontare gli argomenti, ma questi rimangono gli stessi: chi diavolo siamo, che senso ha e che cos’è questa vita. È un film per tutti noi che sentiamo questi problemi. Parla del bisogno di essere riconosciuti, del confondere l’ammirazione con l’amore; del capire troppo tardi che era amore quello che abbiamo avuto e non ce ne siamo resi conto, e che era questa l’unica cosa di cui avevamo bisogno. Noi esseri umani siamo creature patetiche e adorabili. In ognuno di noi c’è un po’ di Birdman ».

     

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    Che cosa cercava quando ha scelto Keaton/ Batman per interpretare Riggan Thompson/ Birdman?

    «La metarealtà che Michael Keaton aggiungeva al film era molto importante, ma anche un fattore di rischio elevato. E non era l’unico: Edward Norton ha la stessa reputazione del personaggio che interpreta, l’attore di New York che è stato sulla scena teatrale, pesante, dominante e superintellettuale. Sul set ha regnato questo: il piacere di potersi rappresentare nudi e senza vergogna.

     

    Si è affrontato questo in modo onesto, non intellettuale, non ironico. Questo film è sincero. Lì dentro ci sono io e quelle sono le mie miserie, le mie realtà. Sono stato tutti questi personaggi. O sono stato io o ho lavorato con loro o sono stato una loro vittima. Quello è stato il mio mondo. Questa è stata la scommessa. E sono scelte reali, non è l’attore che interpreta degli attori falliti; no, è l’attore che ci è passato».

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    E come sono state le riprese con questi piani-sequenza così lunghi?

    «È stato un lavoro estremamente meticoloso e rischioso, perché se non riusciva non c’era modo di nascondere le mie cazzate. Si sarebbero viste. Ma stranamente, per l’entusiasmo e l’incertezza stesse nel farlo, c’è stato un piacere che non conoscevo. Per la prima volta ridevo a crepapelle sul set. E mi sentivo anche in colpa. Mi dicevo: “Come posso divertirmi sul set, se questo è un lavoro?”. Ho un concetto protestante, uno non ride sul lavoro. Ma questa volta è stata una liberazione».

     

    Improvvisa sul set o ha già un’idea chiara?

     

    «Ho due virtù. Una è il concetto. Vedo con precisione tutto ciò che non deve essere e quello che deve essere. La seconda è il ritmo. Per me il ritmo è Dio. Senza ritmo non c’è danza, né architettura, né musica... Le stelle hanno un ritmo, l’universo è ritmicamente ordinato, l’arte è il palpito di quel ritmo e, se non ce l’hai, è impossibile creare qualcosa. Quel ritmo io ce l’ho.

     

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    Sembra una frase astratta e idiota, ma quando monto una scena so naturalmente quando ci deve essere uno spazio tra una parola e l’altra; so quanto tempo deve restare separato un attore dall’altro, e della macchina da presa, so quali obiettivi deve usare, so se deve stare più in alto o più in basso, so la velocità... Nella mia cinematografia c’era un abuso nella costruzione, nella frammentazione, mi vergogno di certe cose ora, mi mettono a disagio, ma dopo Birdman sono un nuovo regista. Ha cambiato la mia prospettiva formale».

     

    La sua prospettiva è cambiata, le sue radici restano in Messico...

    «Posso volare dove mi pare ma non posso tagliare le mie radici anche se oggi la corruzione è tale da aver raggiunto i più elementari livelli della vita. Prima si sequestravano i ricchi, adesso anche il tizio che vende verdure o bibite per strada, il gommista. I governi non sono più parte della corruzione, lo Stato è la corruzione».

     

    E prova paura in Messico?

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    «È una paura simile a quella che ci fanno i lupi. Ne abbiamo paura perché non li vediamo. Puoi andare in un ufficio a sporgere denuncia e il lupo può essere lì, ma non lo vedi. Viviamo in una steppa».

     

    Finisce il suo secondo Campari e sembra essersi scordato della sua sigaretta elettronica. L’intervista, dopo più di due ore, è giunta al termine. Il regista si allontana un attimo per rispondere a una telefonata. Poi, con cortesia, scalda la cena nel forno e stappa una bottiglia di vino rosso dell’Oregon per berla insieme. Domani tornerà sulle rive del Bow. Stringendosi nella sua giacca termica, cercherà la complicità di Chivo per mettere a punto nuovi simulacri. Entrambi, sotto i pioppi spogli, lasceranno le loro impronte sulla neve.

     

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