Andrea Cuomo per “il Giornale”
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Accettereste di rinunciare alla pausa pranzo a patto di avere un orario di lavoro più breve? Un dibattito che in Gran Bretagna infuria, dopo la pubblicazione, qualche giorno fa, di uno studio condotto dal sito di collocamento Glassdoor su 2mila lavoratori di Sua Maestà, secondo cui ognuno di loro dedica ogni giorno al suo nutrimento meno dell' ora prevista dalle norme e dalla tradizione (clock on at 9, clock off at 5, take an hour for lunch. Ovvero: attacchi alle 9, stacchi alle 17 e hai un' ora per mangiare).
Questo perché i ritmi di lavoro finiscono per rosicchiare parte di uno «slot» orario che non è solo un momento di nutrimento ma anche un' occasione di riposo e socializzazione. Secondo la ricerca ogni lavoratore «regala» alla sua azienda 7200 minuti all' anno della sua «lunch pause», ovvero cinque giorni pieni.
Da qui l' idea: e se un lavoratore rinunciasse al break e potesse entrare un' ora dopo o uscire un' ora prima? I lavoratori inglesi sembrano piuttosto propensi. Il 39,7 per cento sarebbero favorevoli a fare dieta (oppure, presumibilmente, a mangiare da una schiscetta senza interrompere il lavoro) a patto di poter entrare dopo o uscire prima dal luogo di lavoro. E il 34,9 baratterebbe il pranzo con una maggiore flessibilità nella giornata. Il 24,4 addirittura sarebbe disposta a monetizzare il lunch «vendendo» quel tempo all' azienda in cambio di una più alta retribuzione.
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Ma del resto a nutrirsi i lavoratori britannici non sembrano tenerci già molto, se è vero che molti di loro già ora fanno altro nell' ora di break: il 28,4 per cento naviga online e il 19,7 va sui social, il 16 per cento fa shopping, il 9,9 va in palestra e il 6,9 gioca online, mentre solo il 26,9 pranza con i colleghi e il 23,4 mangia nella sua postazione, smollicando sulla tastiera.
Insomma, la pausa pranzo in Gran Bretagna potrebbe presto diventare una cosa del passato. Anche perché è costosa (secondo un altro studio ogni anno un lavoratore «butta via» 1288 sterline acquistando o facendosi consegnare il pasto anziché preparselo da solo). E da più parti si critica il cosiddetto «al-desko», ovvero il pasto consumato direttamente alla testiera, che viene considerato triste, insano, antisociale, poco igienico e alla fine anche poco produttivo, perché avvilisce il lavoratore e alla lunga lo rende meno performante.
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Insomma, la pausa pranzo è sacra o è un rituale che si può anche profanare? Probabilmente in Italia le risposte sarebbero molto differenti da quelle dei lavoratori britannici. Una ricerca di qualche mese fa segnala che l' 80 per cento dei dipendenti italiani non la salta mai. Va detto che da noi la lunghezza del break varia molto, da meno di mezz' ora fino a oltre le tre ore (probabilmente si tratta di chi lavora nei negozi delle piccole città, dove ancora c' è un orario di apertura molto ristretto). Molti sono anche coloro che vanno a casa per mangiare in famiglia.
Una ricerca commissionata nel 2018 da Heineken segnalava che ci sono fondamentalmente due approcci concettuali al problema: coloro per cui nella pausa pranzo danno più importanza alla seconda parola e coloro che invece pensano soprattutto alla prima, enfatizzando l' aspetto di stacco e relax rispetto a quello calorico.
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Quattro sarebbero poi le tipologie di italiani di fronte a questo momento della giornata: gli edonisti che vedono anche nella pausa pranzo l' occazsione per coccolarsi con qualcosa di buoni; gli imbruttiti, che riempiono la pausa di una montagna di attività; gli sciallati che cercano di evadere dal lavoro; e i salutisti, che controllano attentamente ciò che mangiano.Tutte persone che non sembrano intenzionate a rinuniciare a questa finestra temporale, mollica o non mollica.