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    VOGLIO UNA VITA COME STEVE McQUEEN - ARRIVA AL CINEMA IL DOCUFILM CHE RACCONTA L’ULTIMA IMPRESA DELL’ATTORE, IL FILM SULLA 24 ORE DI LE MANS, IL FIGLIO CHAD: “E’ UNA RIVINCITA. QUEL LAVORO FU UN DISASTRO FINANZIARIO”. E MINO’ ANCHE LA SUA SALUTE...


     
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    Arianna Finos per “la Repubblica”

     

    Trentacinque anni dopo la sua morte Steve McQueen regala la sua verità sul cancro che se l’è portato via il 7 novembre del 1980: «Penso che a causare la malattia sia stata sì la presenza di alluminio nei polmoni, ma anche le troppe pressioni che ho subito in un momento particolare della mia vita, in cui ho perfino pensato di mollare tutto».

     

    La voce registrata del King of cool è uno dei materiali inediti di Steve Mc-Queen- Una vita spericolata , documentario su quella che avrebbe dovuto essere la più grande impresa dell’attore, girare il film definitivo sulla 24 ore di Le Mans, e che invece gli costò il prezzo più alto dal punto di vista artistico, umano, economico. E, nella sua convinzione, minò anche la sua salute.

     

    Il film di Gabriel Clarke e John McKenna, che I Wonder porta in sala il 9, 10 e 11 novembre, mette insieme interviste ai familiari di McQueen, materiali di repertorio e filmati d’archivio tratti dalle tre ore e mezzo di girato sul set del 1970, un dietro le quinte del progetto (naufragato tra costi faraonici, liti col regista e il produttore) rimasto chiuso per quarant’anni in scantinati e garage fra Europa e Stati Uniti.

     

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    Tra le testimonianze che ricostruiscono l’ossessione del divo appassionato di corse d’auto e abile pilota, spicca quella del figlio Chad, che 54 anni dopo il film si è recato nei luoghi dove aveva trascorso un’incredibile estate nel 1970, a Le Mans. «Per me questo film è una sorta di rivincita - ci racconta - Quando Le 24 ore di Le Mans uscì, tutti lo crocifissero. Parlai con Lee H. Katzin, il regista, due mesi prima che morisse e mi raccontò che in realtà il film non fu un disastro al botteghino, considerando che era un’opera sulle corse d’auto.

     

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    Ma tutti a Hollywood sapevano che mio padre era a capo del progetto e gli diedero la colpa. Molta gente pensò che quella fosse la fine della carriera di mio padre - continua Chad McQueen invece no, fece Papillon , L’inferno di cristallo , Getaway! . Verso questo film ho sentimenti misti. Per la mia famiglia fu quasi un disastro finanziario. Ma dentro c’è la visione di mio padre sulle corse, sul cinema, sulla vita. Io corro da quand’ero giovane.

     

    Un giorno in America viene un pilota e mi dice: ho visto il film di tuo padre e ho imparato ad amare le corse. Era ciò che voleva trasmettere, che cosa significa stare dentro un’auto da corsa. Se ne parliamo trentacinque anni dopo, significa che c’era qualcosa di giusto».

     

    Il film non nasconde il temperamento collerico dell’attore, le sue debolezze. «Era un essere umano, ha fatto errori - osserva McQueen - ma li facciamo tutti. Anni fa non sapevo delle ragazze che aveva avuto, io e mia sorella non capivamo esattamente come stessero le cose. Quando i miei genitori si sono separati sono rimasto con mio padre, al suo fianco fino alla morte, in Messico».

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    Quando se n’è andato, Steve McQueen aveva 50 anni, «io ne avevo diciannove, quasi venti. Ho vissuto un bel pezzo di vita con lui. Aveva avuto un’infanzia terribile, da orfano. Per questo voleva che io e mia sorella fossimo sempre con lui sul set, ovunque. Era un grande padre, divertente: voleva esplorare tutto, era bello stargli dietro, ho vissuto avventure fantastiche. Il ricordo più forte? Una corsa in moto nel deserto, nel nulla, solo noi due».

     

    Anche a Chad la passione per la corsa è costata molto: è costretto a tenere gli occhiali da sole per proteggere l’occhio destro danneggiato da un incidente nel 2006 alla 24 ore di Daytona. «Forse c’è qualcosa nel nostro dna. Mio figlio è patito di corse in moto, io mi son dovuto calmare dopo lo schianto: ho quattordici viti in corpo, non posso permettermi altri errori. Ma non mi pento. Al volante tutto è quieto. Penso che anche per mio padre correre fosse il modo per staccare, accompagnato solo dal rombo dell’auto».

     

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    L’altro aspetto che emerge dal documentario è la capacità di lottatore di Steve McQueen: «Non era uno che colpiva per primo, ma se veniva attaccato era capace di difendersi, fisicamente e non solo, era un esperto di arti marziali». Anche questa è una passione ereditata: nella breve carriera d’attore, Chad si è fatto notare nel ruolo del campione cattivo dei primi due Karate Kid . 

     

    «Non ero un grande attore e odio il set, dopo quei due film feci qualche cosetta per guadagnare. Ma mi piaceva avere come allenatori amici di mio padre come Chuck Norris e Bruce Lee. Bruce era un grande maestro, diverso da tutti: esile e potente, velocissimo. Una leggenda».

     

    Lo è anche Steve McQueen, che fu uno dei divi più amati di Hollywood, capace di sfidare le major fondando la sua casa di produzione, la Solar, convinto di poter fare le cose a modo suo. «Veniva dalla strada, non temeva nulla.

     

    Quando dalle major cercavano di imporgli le cose lui diceva “non me ne importa niente, non ho bisogno dei loro soldi, ne ho già passate tante e sono sopravvissuto”. Era fatto della pasta di Charles Bronson, James Coburn, John Wayne. Oggi è tutto troppo politicamente corretto. Viviamo in un ambiente sterilizzato. A volte mi chiedo cosa direbbe mio padre se fosse qui».

     

    steve mcqueen steve mcqueen

    McQueen jr. spera che Una vita spericolata faccia scoprire il padre alle giovani generazioni: «I compagni di mio figlio non sanno chi fosse. Forse i ragazzi guardando il documentario si faranno un’idea, andranno a vedere i film, ne parleranno con gli amici: “Sai, ho visto un film fichissimo che si chiama Bullit ”...».

     

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