Estratto dell’articolo di Andrea Silenzi per “la Repubblica”
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Adagio Biagio era il titolo del suo secondo album, 1991. Un consiglio dato a sé stesso, ignorato per anni, che alla fine è tornato prezioso. Dopo tanti successi si è preso cinque anni di pausa discografica prima di pubblicare, a gennaio, il nuovo album L’inizio. Ora è appena uscito il singolo Lasciati pensare e Biagio Antonacci continua a vivere tra Bologna e la zona di Cesenatico dove (da buon geometra) ha costruito una casa in mezzo alla natura seguendo le linee della bioedilizia e ha messo in piedi una tenuta con animali e piante, dove produce olio e vino e coltiva la sua passione per le moto d’epoca.
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Un ritorno che avrà una coda live, con una serie di concerti a giugno in luoghi di grande suggestione, lo Sferisterio di Macerata, Caracalla a Roma, il Porto Antico di Genova, l’Anfiteatro degli Scavi a Pompei («Come i Pink Floyd!», scherza), il Fossato del Castello a Barletta e il Vittoriale a Gardone Riviera[…]
[…] La modernità le piace. Anni fa ha collaborato con i Club Dogo, nel nuovo disco ci sono Benny Benassi, Giorgio Poi, Tananai che canta un suo classico, “Sognami”. Tutti artisti che vanno veloci.
«Quando c’è da correre, corro, non sento l’età. Ma resto un cantautore. Ho sempre composto canzoni con quell’incertezza che accomuna tutti gli autori: quando ho iniziato ci volevano tre mesi, era tutto più lento. Le canzoni arrivano senza senso, regaliamo immagini, sogni».
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L’infanzia a Rozzano, un “posto difficile”. Oggi si parla di periferie complicate, lei è stato il primo. È legato a quei luoghi?
«A certi posti resti legato, c’è una parte di te che non è mai partita. È rimasta lì a innamorarsi delle fragranze delle anime che incontravi nei cortili. La periferia è un diffusore di sogni. Oggi sto bene anche fuori da lì. Rispetto agli artisti giovani, non sarei mai entrato a Rozzano con la Porsche o il Rolex, i miei si sarebbero arrabbiati. Oggi non hanno sensi di colpa».
Diplomato geometra, poi carabiniere in servizio a Garlasco. Lì va a cercare Ron e inizia tutto.
«Ero un fan della scuola di cantautori bolognese, Ron era legato a Dalla. Mi assegnarono a Garlasco, un pomeriggio usciamo in pattuglia e l’appuntato fa “quella è la macchina di Ron”. Ci affiancammo, l’appuntato disse a Ron che ero un suo fan. Gli dissi che scrivevo canzoni.
“Portamele!”. Mi presentai da sua mamma con 4 pezzi fatti in casa e un mazzo di fiori. Ron mi chiamò, disse che c’era ancora da fare ma aggiunse: “Quando canti hai qualcosa da dire”.
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Mi rimase nel cervello per sempre».
Qualche anno dopo, a Roma, un episodio che le ha dato la sensazione di avercela fatta.
«Stavo andando in radio, il tassista ascoltava Liberatemi, dice “aho’, questo è forte”. Gli dico “guarda che sono io”, si gira, mi guarda: “Anvedi, ma limort …”. Scesi dal taxi, mi ha portato al bar e urlava a tutti “aho’, questo è Antonacci, guardate chi v’ho portato[…]».
Faceva ancora il geometra?
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«Sì, non volevo lasciare il lavoro. Poi il mio capo mi chiese quanto prendevo a data, era più della mensilità, e mi disse di dedicarmi alla musica: “Io ci sarò sempre, semmai ne riparliamo”. Ma il successo mi ha limitato: avrei dovuto viaggiare, leggere, studiare le lingue».
Per anni le hanno tirato i reggiseni sul palco, veniva assalito in strada. È mai caduto nel delirio di onnipotenza?
«I reggiseni li ho sempre visti come un gioco, un modo per dire “mi piaci”. L’onnipotenza non l’ho vissuta come avrei potuto: da giovane avevo la forza ma ero timido e non la consideravo». […]
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