Marco Carta per “il Messaggero”
MANHUNT UNABOMBER
Non sono gli eroi romantici di “Addio Lugano Bella”. E nemmeno gli eredi di Sacco e Vanzetti. Ma, di sicuro, assomigliano sempre di più a Theodore John “Ted” Kaczynski, lo spietato terrorista americano, protagonista anche di un’amatissima serie tv «Manhunt: Unabomber». A distanza di quasi tre mesi rimane il mistero dietro gli undici plichi esplosivi che lo scorso marzo hanno seminato il panico fra Roma, Viterbo e Rieti, ferendo almeno 4 persone.
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I punti oscuri sono diversi nell’inchiesta per atti di terrorismo e lesioni, coordinata dal procuratore aggiunto, Francesco Caporale e dal pm, Francesco Dall’Olio. Allo stesso tempo, però, sono molte le suggestioni che riconducono la psicologia del presunto o dei presunti attentatori, ritenuti vicini all’area anarchica, a quella del famigerato Unabomber, che tra il 1978 e il 1995 inviò numerosi pacchi postali esplosivi, provocando la morte di 3 persone e ferendone 23.
Dalla modalità di attacco, plichi esplosivi inviati per posta, fino all’ideologia antimoderna, condivisa anche negli ambienti anarchici, ed esposta nel manifesto «La società industriale e il suo futuro», che lo stesso Unabomber diffuse prima di essere arrestato e condannato all’ergastolo. Promuovere la tensione sociale e l’instabilità per Kaczynski, era l’unico modo per contrastare la società tecnologica.
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È anche sotto questa luce che si cerca di legare i destinatari dei plichi di marzo, ordigni che non potevano uccidere ma ferire, indirizzati a persone apparentemente non collegate tra loro, tra cui l’ex avvocato di Erich Priebke e l’ex militante di CasaPound Francesco Chiricozzi, condannato in primo grado a 3 anni per uno stupro avvenuto in un pub. Nessuno ha mai rivendicato la spedizione dei plichi, questo è un fatto. Nel dicembre del 2017, invece, la Federazione anarchica informale si attribuì la paternità dell’ordigno esploso di fronte alla stazione dei carabinieri di San Giovanni.
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