Vanna Vannuccini per “la Repubblica”
IRAN ARTE CONTEMPORANEA
L’Iran non finirà mai di sorprenderci. Chi immaginerebbe che proprio dal paese che per l’Occidente è stato per quarant’anni sinonimo di oscurantismo arrivi un gioiello, una collezione straordinaria di pittura occidentale moderna e contemporanea?
Un tesoro che quasi nessuno ha visto, noto solo agli addetti ai lavori, conservato con molta diligenza e cura nei sotterranei — ben forniti di aria condizionata — del Museo di arte contemporanea di Teheran?
La prima fioritura della primavera persiana cominciata con l’elezione del presidente Rouhani e che gli iraniani sono decisi a non far sfiorire come tante primavere arabe, comincia col viaggio in Europa di una leggendaria collezione, la più importante raccolta di arte moderna occidentale esistente fuori dall’Europa e dagli Stati Uniti. Un valore stimato di tre miliardi di dollari.
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Un sogno, per tanti cultori. Gugu Ortona, storica dell’arte e ambasciatrice a Teheran alla fine degli anni Novanta, quando la collezione fu visibile per la prima volta, seppur per pochi giorni, nei sotterranei del museo, ricorda: «Rimanemmo tutti stravolti dalla qualità straordinaria di ogni singola opera: un Bacon di forza straordinaria, anche di grande violenza, un Toulouse-Lautrec eccezionale. Dire che la collezione è impressionante è poco. Una tale ricchezza in Italia francamente ce la sogniamo: millecinquecento opere da Monet a Kandinsky, da Picasso a Pollock, Andy Warhol, Rothko, de Kooning...».
Era stato un presidente riformatore, Mohammad Khatami, che aveva reso possibile in quegli anni l’accesso alla collezione. E anche oggi l’arrivo in Europa dei suoi capolavori è un segnale di liberalizzazione: il governo del presidente Rouhani, che ha appena realizzato gli impegni presi con l’occidente con l’accordo sul nucleare, è impegnato ad aprire l’Iran al mondo, rompendo l’isolamento in cui è rimasto per decenni e che lo ha reso la pecora nera della politica internazionale.
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Il merito della collezione è di Farah Diba, la moglie dello scià Mohammad Reza Pahlavi. A Parigi, dove abita oggi, Farah Diba ha raccontato come colse l’occasione dell’improvviso aumento della rendita petrolifera (il prezzo del barile quadruplicò in un anno, passando da tre a dodici dollari) per ottenere dallo scià il via libera perché anche Teheran avesse un suo Museo di arte contemporanea.
La costruzione fu affidata a Kamran Diba, famoso architetto e cugino dell’imperatrice. Il TMoCA è ancora oggi una delle più interessanti opere architettoniche della capitale iraniana, quasi una versione rovesciata del Guggenheim di Frank Lloyd Wright a New York, con un percorso a spirale che scende invece di salire.
L’impennata dei prezzi del petrolio non aveva solo riempito le casse dello Stato iraniano ma provocato anche una crisi economica mondiale con conseguente ribasso del mercato dell’arte, e così in pochi anni, con l’aiuto del cugino Kamran e di una esperta americana, Farah Diba riuscì a mettere insieme la collezione poi inaugurata nel 1977. Esattamente due anni dopo l’imperatrice prendeva la via dell’esilio insieme allo scià, mentre a Teheran tornava trionfante l’ayatollah Khomeini e instaurava la Repubblica islamica.
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Dopo le perversioni che si erano viste nei paesi comunisti e la grande ingiustizia dei paesi capitalisti gli iraniani pensavano che uno Stato fondato sulla religione avrebbe assicurato giustizia e solidarietà.
Ma una delle parole d’ordine del khomeinismo fu “gharbzadeghi”, l’intossicazione da Occidente — l’idea che la depravazione morale e sessuale occidentale avesse infettato le nazioni islamiche e che l’unica cura possibile fosse il governo di una Guida islamica.
Subito Khomeini bandì dunque la musica, il cinema, i romanzi e impose l’obbligo del velo per le donne. Così, mentre le folle lo applaudivano nelle piazze, la direzione del TMoCA per prudenza decise di mettere i suoi capolavori di arte occidentale nei sotterranei. E lì sono rimasti.
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Chi ha la fortuna di poterli vedere deve scendere al piano più basso del museo dove, superato un cordone di velluto sostenuto da due pali di ottone, c’è una porta con la scritta “Servizi”. Da lì si diramano le stanze in cui sono custoditi i quadri, con i pannelli mobili disposti a libro lungo le pareti. Fai scorrere un pannello e appare Il pittore e la modella, dipinto da Picasso nel 1927. Ne fai scorrere un altro e trovi il Mural on Indian red ground di Pollock (valore stimato di trecento milioni di dollari).
Di tanto in tanto alcuni quadri sono stati portati ai piani superiori. Nel 1999, in occasione della prima mostra occidentale dopo la rivoluzione, dedicata alla pop art, furono mostrate opere di Lichtenstein, Rauschenberg, Hockney e Warhol. Nel 2005, un direttore coraggioso esibì il trittico di Francis Bacon Two Figures Lying on a Bed with Attendants, dove si vedono due uomini nudi sdraiati entrambi sul fianco destro.
Immediatamente qualcuno ne denunciò il carattere omosessuale e il ministro della Guida Islamica (era già cominciata la presidenza di Ahmadinejad) ordinò di riportare il quadro nel sotterraneo. Ma l’ordine arrivò quando il pubblico aveva già cominciato ad affluire nel museo, cosicché i primi arrivati ebbero la fortuna di vederlo, mentre agli altri non rimase che ammirare un chiodo alla parete.
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Il Trittico fu poi prestato alla Tate Gallery, mentre alle Scuderie del Quirinale sono arrivati nel 2004, in occasione di una mostra sulla Metafisica, un Picasso, un de Kooning e un Max Ernst. Altri dipinti sono esposti nel museo in questi giorni: in occasione di una retrospettiva di Farideh Lashai, la prima donna ad avere una mostra così importante nella Repubblica Islamica, il curatore italiano della retrospettiva, Germano Celant, ha convinto il museo ad accompagnarla, per consentire un paragone stilistico tra Lashai e i suoi contemporanei nel mondo, con una dozzina di opere della collezione sotterranea.
Naturalmente tutti stanno attenti a non provocare gli ultraconservatori (che hanno ancora in mano leve pericolose come la magistratura) evitando di esporre i quadri che più potrebbero incorrere nelle loro ire. Fra i dipinti della collezione che gli iraniani prevedibilmente non vedranno mai ci sono nudi di Picasso e di Edvard Munch, un quadro intitolato “Golden Age” di André Derain, in cui undici donne nude si divertono sull’erba, e la meravigliosamente seduttiva “Gabrielle con la blusa aperta” di Renoir.
Resta comunque stupefacente, ma tipico dei paradossi dell’Iran, che in tutti questi anni la collezione sia rimasta integra e perfettamente conservata. L’ha preservata dalla dispersione lo straordinario orgoglio nazionale degli iraniani che rende anche gli ayatollah felici che il proprio Paese possieda qualcosa che l’Occidente gli invidia.
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E paradosso tra i paradossi, è proprio al Consiglio dei Guardiani, l’organo più conservatore della identità islamica, che va il merito maggiore: ha infatti deliberato che le millecinquecento opere d’arte dovevano rimanere dove sono perché farne commercio sarebbe stato islamicamente scorretto.