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    WOODSTOCK, PANE E PANELLE – ANCHE L’ITALIA HA AVUTO I SUOI TRE GIORNI DI SBALLO: ALLO STADIO DELLA FAVORITA DI PALERMO, NEL 1970, QUASI TUTTI GLI ARTISTI CHE L’ANNO PRECEDENTE AVEVANO PARTECIPATO ALLO STORICO FESTIVAL SI ESIBIRONO DAVANTI A 80MILA RAGAZZI - UNA DISTESA DI CORPI, SUDORE, CANNE, DESIDERIO, BALLI ESTENUANTI DI GRUPPO, OLTRE A SESSO CONSUMATO ALL'ARIA APERTA NELLA CITTÀ DOMINATA DA DON VITO CIANCIMINO E SALVO LIMA – ARTHUR BROWN SI DENUDÒ SUL PALCO E VENNE PORTATO ALL'UCCIARDONE E IL CARDINALE RUFFINI... - VIDEO


     
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    Marcello Sorgi per "La Stampa"

     

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    Mezzo secolo fa, nell'estate del 1970, Woodstock a sorpresa si trasferì a Palermo. Nel senso che gli stessi artisti, non tutti, ma una buona rappresentanza, che avevano suonato e cantato esattamente un anno prima nel festival che segnò per sempre la storia del rock e la nascita di una nuova generazione di giovani hippies, scelsero la più meridionale delle capitali europee per celebrare lo stesso rito.

     

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    Ignari di trovarsi in un territorio ad alta densità mafiosa, con un'amministrazione comunale sulla quale dominavano già don Vito Ciancimino e Salvo Lima, di lì a poco giustiziato dai corleonesi, si avventurarono nell'organizzazione del festival «Palermo Pop '70», che malgrado tutte le difficoltà, immaginabili e non, si risolse in un trionfo: ottantamila ragazzi sotto la luna e le stelle siciliane, avvolti dal profumo dei gelsomini.

     

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    Ragazze uscite di casa con abiti castigati imposti dalle mamme e minigonne inguinali nascoste nelle borse. Una distesa di corpi, sudore denso di ormoni, canne, desiderio, balli estenuanti di gruppo, oltre, ovviamente, a sesso consumato all'aria aperta. Chi c'era e ancora se ne ricorda sostiene che le occupazioni del '68, a paragone, erano una cosa per educande, e nessuno avrebbe mai previsto una tale ondata di trasgressione e libertà in una delle città più ancorate, a quei tempi, al rispetto dell'educazione all'antica.

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    Un'esperienza che chiudeva idealmente gli Anni Sessanta dei Beatles e dei Rolling Stones. Nell'Italia preda della rivolta studentesca delle scuole e delle università, e di quella operaia dell'«autunno caldo», di quel periodo era giunto solo qualche refolo, e i primi «long playing» a 33 giri.

     

    L'atto conclusivo del decennio si era consumato il 10 aprile, con l'annuncio di Paul Mc Cartney della sua uscita dai Beatles. A Palermo, proprio in quei giorni, era arrivato un singolare personaggio siculo-americano, Joe Napoli, deciso a importare in Sicilia la formula collaudata per anni in Belgio del suo jazz festival, frequentato da un gruppo di talentosi jazzisti siciliani, come Claudio Lo Cascio, Enzo Randisi, Renato Emanuele, Gianni Cavallaro, che avrebbero fatto parlare di sé, e da un'aristocratica di indole mecenatesca, Silvana Paladino, che viveva in una torre saracena in riva al mare con il marito Cecè, ultimo erede della dinastia Florio. Poliglotta, frequentatrice della «swinging London» e appassionata di musica, Silvana si era incuriosita di Woodstock, ed era andata a vivere quell'esperienza con Joe.

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    Insieme si erano visti passare sotto gli occhi scene che altri avrebbero potuto vedere solo nel film, rimasto famoso, su quei giorni: Ravi Shankar. Arlo Guthrie, Joan Baez incinta al sesto mese. E poi Janis Joplin, Grateful Dead, Credence Clearwater Revival, Pete Towsend talmente invasato che, quando qualcuno gli si avvicinava per convincerlo a lasciare il palco, lo prendeva a chitarrate in testa. L'idea di riproporle a Palermo, divenne un sogno inconfessabile.

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    Napoli era un impresario musicale di esperienza californiana. Portava in giro per il mondo, tra gli altri, Chet Baker, uno dei più grandi jazzisti conosciuti. A Londra aveva fondato un'etichetta musicale, la Stallion, ed era sempre a caccia di nuovi progetti: così si innamorò di quello di Silvana, e forse un po' anche di lei. Joe parlava un mix di inglese e dialetto siciliano.

     

     Mangiava solo zuppe Campbell «pork an beans», fagioli in ragù di maiale. E aveva il vezzo di americanizzare i nomi di tutti i suoi interlocutori: «Drinkwater» per Paolino Bevilacqua, il democristiano ex-sindaco di Palermo che, prima di capire a cosa andava incontro, decise di finanziare il Festival con i fondi dell'Azienda autonoma di turismo, un'istituzione fino allora impegnata nelle festività religiose dei santi patroni; «Goodwoman», Sergio Buonadonna, il critico musicale de L'Ora autore del delizioso libro Quando Palermo sognò di essere Woodstock da cui sono tratti questi aneddoti; «Richard Lamb», Riccardo Agnello, un altro membro decisivo dell'organizzazione. L'unico con un vero cognome americano era Johnny Toogood, «troppobuono», il socio di Joe.

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    Dal 17 al 19 luglio 300 artisti si esibirono davanti alla folla di ragazzi e ragazze sdraiati sul prato spelacchiato dello stadio della Favorita: c'erano Duke Ellington, Aretha Franklin, Phil Woods, Tony Scott, Johnny Halliday, Brian Auger, gli Exseption, Elsa Soares, Johnny Griffin, e gli italiani Little Tony, Nino Ferrer, Carmen Villani, Giusy Romeo. Il clou dell'esibizione fu quando Arthur Brown si denudò sul palco e venne portato via dai carabinieri.

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    Fu l'unico degli ottantamila a finire all'Ucciardone. E a segnare la fine di Palermo Pop: qualcuno dei democristiani nemici di «Drinkwater», infatti, era andato a spifferare tutto al severissimo cardinale Ernesto Ruffini. In un soffio, fu cancellato qualsiasi aiuto pubblico a Joe Napoli, che dovette presto arrendersi.

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