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Quaranta anni fa Yannick Noah vinceva al Roland Garros. Un francese campione di Francia. I giornali celebrano l’evento da un po’. Noah nel frattempo è diventato prima una rockstar, poi un capovillaggio impegnato nel sociale in Camerun.
Oggi gli dedica un lungo ritratto anche il New York Times. Ma è in un’intervista a L’Equipe, nella quale ripercorre partita dopo partita quel successo leggendario, che Noah regala qualche piccola perla di tennis che non c’è più.
Dice che ai suoi tempi i giocatori erano diversi l’uno dall’altro, e ogni partita era un match di personalità. Erano “ruoli che recitiamo. E oggi, penso che l’abbiamo perso un po’… Con le nuove regole del tennis e il fatto che abbiamo meno diritto di esprimerci, il pubblico non conosce i giocatori. La gente crede di conoscere Nadal, Federer, Djokovic, il che è normale visto che li vede tutti i giorni da vent’anni. All’epoca non era così. Ma il pubblico sentiva le voci dei giocatori. Penso a Nastase che ha aperto una porta. La gente amava Nastase perché era un giocatore brillante ma le partite venivano costantemente interrotte, c’era umorismo, passione, dramma”.
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E poi c’è “il gioco invisibile”, lo chiama così. Le personalità che appaiono o scompaiono in campo. “L’aura, il posto che prendi in campo. Alcuni giocatori, quando entrano in campo, ti sembra che stiano rimpicciolendo. Altri, hai l’impressione che occupino tutto lo spazio. Ricordo Victor Pecci che era alto, imponente e quando entrava in campo si aveva l’impressione che fosse quasi più grosso del campo.
McEnroe, se ha iniziava a ridere era molto piccolo! Quando urlava, era più grosso. Io avevo il mio posto, quello di questo gladiatore che attaccava, che poteva finire pieno di creta con un gioco sgargiante, qualcosa di un po’ artistico. Lendl era il ragazzo serio, pulito, potente, duro”.
Di Pecci Noah racconta che sentiva una rivalità tra maschi. Era più bello di lui, e questa cosa lo infastidiva: “Tutte le ragazze sognavano Pecci ed era super fastidioso perché quando arrivi in campo vuoi prendere quel posto. E quel posto che mi è capitato di avere, lo prendeva lui. Era più facile per me giocare contro un ragazzino che aveva una faccia da torta che contro un bel ragazzo”.
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“Forse è la mia educazione, il fatto che vengo da una famiglia molto modesta, che ho avuto dei momenti difficili… Ma ogni volta che vincevo una partita, ero quasi sorpreso. Mi è capitato di vincere partite in cui piangevo, mentre invece mi dicevano ”ma aspetta, sei più bravo di lui!”. Ho sempre avuto questa cosa in cui ero tipo ‘me lo merito?’ Certo, sei un duro. Ma se faccio un concerto dopo trent’anni di carriera, c’è sempre questa sensazione ‘è troppo bello, dammi un pizzico’.
La mia carriera è stata quella. È così bello, tutti questi viaggi, questa vita, tutti questi amici, tutta questa avventura, vincere un Grande Slam. È pazzesco. E tienilo per te. È fantastico perché non mi ci abituo, non sono stanco, mai. Ci sono persone che hanno vinto molto di più e non provano la metà di quello che provavo io”.
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Quando sono arrivato in Francia “avevo fame, raccoglievo roba per strada a Nizza, pezzetti di cioccolato. Per un torneo junior al Roland Garros un amico dei miei genitori mi aveva dato un appartamento in rue du Point du Jour, a Boulogne, un appartamento superbo ma avevo zero franchi. E quando arrivi al Roland e non hai il buono pasto perché sei troppo giovane…
Ho fatto il Roland junior, senza mai mangiare. Rinforza. Ci sono persone che mi hanno fatto un po’ male e la mia unica difesa era vincere. Ho vissuto molti momenti di solitudine. Ma il desiderio non è qualcosa che hai nei tuoi geni, è un corso di vita. Non sono nato a Parigi andando al Racing o al Tcp, andando a lezioni di gruppo da quando avevo quattro anni. No, non avevo una racchetta. Ho giocato con la stessa palla per un anno. Restano quelle cose”.
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