Marta Serafini per il “Corriere della Sera”
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«Abbiamo pagato 70 mila dollari in totale ai trafficanti. E dal 2020 ad oggi abbiamo provato cinque volte a fuggire, prima di riuscire a prendere il mare». Non sanno ancora se sbarcheranno e se potranno salvarsi davvero. Ma di sicuro sanno cosa hanno sofferto. A.
e F., marito e moglie siriani di 32 e 22 anni. Nel 2020 decidono di lasciare la loro Damasco insieme alla loro bambina di 5 anni, S.
L'uomo ha un buon lavoro, commercia tessuti. Ma ha paura per la figlia, non vuole che cresca in un Paese in guerra. «È per lei che lo abbiamo fatto», racconta al Corriere da bordo della Ocean Viking, mentre la nave si trova ancora in mare davanti alla coste della Sicilia.
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Prima Beirut, poi da lì in aereo fino a Bengasi, in Libia. «Durante i diversi tentativi di fuga, due sono stati i momenti più drammatici, quando i trafficanti hanno puntato i kalashnikov contro la testa di mia moglie e di mia figlia e qualcun altro sparava in aria. Mi hanno detto che o pagavo o le ammazzavano». Nel ricordo di questa famiglia però resterà per sempre marchiato a fuoco anche il giorno in cui la donna viene costretta a lavare i corpi dei migranti morti durante il naufragio nel quale lei e suo marito e la bambina si sono invece salvati. «Mia moglie si è sentita male, è collassata. Chi può farti una cosa del genere? Nemmeno a un animale faresti tanto male».
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Gli anni passano tra abusi e orrori. Ad ogni passaggio A. si vede estorto denaro per salvare la sua vita e quella di sua moglie e di sua figlia. Per evitare l'arresto, per salire sui gommoni sgonfi, su cui rischia di morire e di veder morire la sua famiglia. Fino al 9 ottobre scorso quando i tre vengono caricati sull'ennesimo barcone in partenza da Sabratha. Poi dopo 9 ore vengono salvati. Ma questa volta nessuno estorce loro denaro.
Sono gli operatori della nave di Sos Méditerranée, la stessa su cui ora si trovano. Seduti sul ponte, o fermi a guardare l'orizzonte del mare tutto uguale, sanno poco quello che succede in Italia in queste ore. Sanno solo che vogliono arrivare «per dare finalmente a nostra figlia la possibilità di un futuro».
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Ma anche sul molo di Catania il supplizio non finisce. Tra i 35 rimasti a bordo della Humanity 1, c'è chi ha iniziato a rifiutare il cibo. «Hanno visto tutti i loro compagni sbarcare. A loro invece è stato detto di no. Perché magari hanno 19 anni e non 18 o non hanno cicatrici abbastanza visibili sulla pelle. Sono disorientati, stanno perdendo fiducia. Per questo stanno smettendo di mangiare», racconta al Corriere Rocco, calabrese, operatore della ong tedesca. E racconti di disagio arrivano anche dal palazzetto dello sport di Catania dove sono ospitati i minorenni sbarcati in queste ore.
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A visitarli Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa Verde. «Stanno lì distesi su lettini di plastica», spiega. Ma a colpirlo particolarmente è stata la visita insieme al senatore del Pd Antonio Nicita, a bordo della Geo Barents, la nave di Medici Senza Frontiere, sbarcata domenica sera su cui ieri è salito per portare solidarietà agli oltre 200 rimasti a bordo dopo le operazioni di sbarco per minori e fragili. «Sono scosso, mi creda. Ho visto i segni della scabbia sui genitali degli uomini che si sono denudati davanti a me per mostrarmi le loro condizioni. E i segni profondissimi lasciati dalle frustate e dalle torture subite nei centri di detenzione in Libia. Cosa devono patire ancora per avere diritto a protezione?». Da contestare, secondo Bonelli, le modalità di ispezione delle autorità sanitarie che hanno individuato i soggetti più fragili e dunque li hanno autorizzati a scendere. «Per Geo Barents le operazioni sono durate 4 ore. Erano in 570. Significa meno di mezzo minuto a persona. È sufficiente per decidere chi ha diritto a una vita?».
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