Giampiero Mughini per Dagospia
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Caro Dago, tanto più si fa chiassoso se non addirittura forsennato il rumore delle voci che scandiscono la nostra vita attuale - i giornali e per quanto decaduti, le centinaia e centinaia di canali televisivi, i blog, le tonnellate di parole eruttate momento per momento dai social - tanto più si fa alta la responsabilità di ciascuna parola che ognuno di noi adotta e pronuncia in pubblico.
Laddove a far audience è la concitazione dello scambio comunicativo fatto per iscritto o per orale -, quanto siano roventi e azzannanti le parole che ciascuno spara in caccia al suo interlocutore, quanto siano vistosi gli ”scazzi” televisivi su cui Dagospia punta sovente il suo mirino -, la mia personale opinione è che in quegli scambi ciascuno di noi dovrebbe fare attenzione persino a dove piazza un punto e virgola.
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Il fatto che oggi vengano pronunziate cento volte più parole di quante ne venissero pronunziate negli anni della mia prima giovinezza, accresce proporzionalmente la responsabilità di ciascuna di quelle parole. Anche perché una volta che l’hai detta, una volta che l’hai pronunziata, quella parola se ne va e se ne sta per i fatti suoi, la stramaledetta. Ti guarda in volto e ghigna.
Mi è capitato una volta scrivendo un pezzullo per Dagospia. C’era che non condividevo un’uscita di Fedez su un certo avvenimento della storia italiana recente e mi apprestai a scriverne seppure in modo breve e conciso. Opinioni differenti, che c’è di strano. Solo che io nello scrivere breve breve usai una parola che era insolente nei confronti di Fedez.
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Una sola parola, ma insolente e inutilmente offensiva. Me ne accorsi quasi subito che era una parola sgangherata rispetto ai miei scopi - marcare una differenza rispetto all’opinione di Fedez -, solo che quella volta a Dagospia ci misero pochi minuti a mettere in pagina il mio testo. Che se ne stava lì e ghignava. Che fare?
Il giorno dopo mi telefonò - cortesissimo - l’avvocato di Fedez. Non gli diedi il tempo di aprire bocca. L’espressione che di certo aveva provocato il risentimento di Fedez io la rinnegavo del tutto. E difatti scrissi una lettera personale a Fedez e poi una lettera pubblica su Dagospia in cui spiegavo che quell’espressione era né più né meno che un errore della mia penna, il segno di una responsabilità intellettuale che per un istante era venuta meno e di cui io stesso soffrivo. Quando la mia lettera di scuse a Fedez apparve su Dagospia, mi sentii sollevato. Di averla scritto, ne ero orgoglioso.
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Voglio dire con questo che mai più nel mio mestiere di chiacchieratore in pubblico ho usato un’espressione imprecisa o scadente? Non sarò così presuntuoso, voglio solo dire che ci sto molto attento. Moltissimo. Se qualche volta mi accendo è perché mi ci hanno portato con le tanaglie. Replico, quello sì. Azzannare per primo? Non lo faccio mai.
Succede ad esempio un paio di giorni fa che su Rai1 qualcuno con un’aria che vorrebbe essere sorniona mi dice che il maglione che sto indossando nella puntata ha tutta l’aria di somigliare alle vesti “leopardate” che indossa un ministro della Repubblica italiana, peraltro rispettabilissimo.
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C’è che il mio maglione, uno dei cinque esemplari firmati dal designer principe della giapponese Comme des garçons (uno dei tre marchi giapponesi che hanno cambiato la storia della moda odierna), non abbia nulla ma proprio nulla di “leopardato”. Nulla. Occhi per credere. E dunque ho replicato nella serata di Ra1. Ho replicato con parole di cui avevo altissima responsabilità, sino al punto e virgola. Di cui ero orgoglioso come della lettera inviata a Fedez.