Achille Bonito Oliva per Robinson - la Repubblica
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Il museo è un'istituzione che esegue la sua espropriazione in nome di un'astratta collettività che dovrebbe così usufruire della contemplazione socializzata e pubblica dell'arte. In realtà essa funziona per nome e per conto di un mandante che è la classe egemone che detiene tutto il potere, anche quello di produrre e aggiornare i significati di un linguaggio, doppio rispetto a una realtà che già manipola.
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Il mercato e il collezionismo sono mossi da istanze private e di accumulazione economica, di promozione culturale e di identificazione con l'opera. Il collezionismo agisce in nome di un amore per l'arte che la feticizza e la privilegia al di sopra di altri oggetti della produzione.
Il collezionista assegna all'artista il primato ed il compito di produrre significati specializzati, ottenuti cioè attraverso l'impiego di tecniche e linguaggi che appartengono al sistema e alla storia dell'arte.
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Ma se non è possibile psicoanalizzare il mercato, per la sua impersonalità strutturale, è invece possibile analizzare a livello delle motivazioni profonde, il comportamento del collezionista, individuato nella persona di chi accumula opere e oggetti d'arte. In realtà il collezionista proietta e delega la propria creatività all'artista che la gestisce e la oggettiva in forme che, dietro un compenso economico, ritornano al delegante.
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Il collezionista è colui che rinuncia ad esercitare le proprie pulsioni profonde e segrete e accetta una vita bidimensionale, senza rischi, in cui le opere diventano la possibilità di una avventura, che egli non può e non vuole correre, e l'impossibilità divenuta reale, vissuta per interposta persona.
Se l'arte è produzione del desiderio, di impossibili possibilità, produzione di inconscio (come dicono Deleuze e Guattari), allora il collezionismo è la copia del desiderio, irrisolto e divenuto nostalgia, coltivata attraverso l'artificiale accumulazione di opere d'arte.
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L'attaccamento libidico e sacrale del collezionista ai propri oggetti corrisponde all'attaccamento del bambino alle proprie feci, risarcimento e gratificazione per un'impotenza procurata, proprio, dalla delega della propria creatività. Le opere diventano la coniugazione di un'esistenza che crede nella frantumazione del lavoro e dell'attività produttiva.
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All'arte viene assegnato un valore inizialmente astratto e, successivamente, concreto che si identifica con la singola opera. Privatizzare l'opera significa la possibilità di introiettare detto valore, quello della creatività, e riparare la perdita iniziale. Significa, per il collezionista, ritrovare una fittizia unità che la sua iniziale delega gli aveva fatto perdere.
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La collezione, l'esibizione ordinata delle opere nella casa privata o nel museo, in cui vengono accolte spesso le collezioni private, è l'ostentazione infantile di chi si illude di aver riparato la perdita attraverso il denaro-fallo. Il denaro diventa il prolungamento di un eros interdetto, deviato dal suo esercizio diretto e risolto, mediante la contemplazione, in voyeurismo che si accontenta della rassicurante e statica presenza dell'oggetto, al posto di una pratica della processualità: perché l'arte è un processo creativo, dell'arte.
Il collezionista, con il suo comportamento, ha contraddetto il luogo comune che lo vuole innamorato delle belle forme, della universalità e immortalità dell'arte. Nell'ambito della cosiddetta avanguardia, egli è disposto a tutto, colleziona anche l'effimero. Il collezionista di Duchamp aveva già, all'inizio del secolo, comprato dall'artista l'aria di Parigi, custodita in una ampolla.
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Con la produzione dell'anti-form, arte processuale, body-art, arte concettuale e land-art, egli si accontenta di tesaurizzare anche i detriti, materiali volgari e deteriorabili, fino alle scatole di merda di Manzoni, le foto del mongoloide di de Dominicis e dell'incesto di Vettor Pisani.
Perché il collezionista ha investito l'artista di un potere egemone, quello di una produzione immaginativa che tutto giustifica e promuove a valore: il corpo dell'artista e i suoi dintorni sono, per lui, il tempio dell'arte.
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Egli, il collezionista, ha invidia dell'artista, della fantasia-pene e cerca di evirarlo mediante l'accattivante proposta del collezionismo. Il collezionismo diventa il luogo narcotico in cui egli sposa, nel ruolo femminile, l'immaginazione maschile di chi è riuscito a procreare, adottandone alla fine l'opera-prole. Si instaura allora un rapporto fondato sul desiderio inconscio, da parte del collezionista, di eseguire una sorta di rito cannibalesco, quello di mangiare attraverso l'opera colui che si è mostrato più potente e sottile.
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Da qui il collezionismo che accetta ogni sfida, di collezionare tutto, anche sé stesso, di catalogare l'impalpabile, l'odore, il rumore e il fumo del sigaro di Duchamp.
La copia del desiderio nasconde allora il desiderio di non essere copia, l'impulso di non accettare l'azione per interposta persona e a provare nostalgia per un ruolo interdetto. Così il collezionista adopera l'arte come una macchina di Roussel: prova il brivido di una realtà fantasmatica diversa, il conforto e il privilegio di uno spettacolo.
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