1 - LA TURANDOT DI AI WEIWEI - IL DEBUTTO DELL'OPERA DELL'ARTISTA METTE LA POLITICA AL DI SOPRA DI PUCCINI
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James Imam per Financial Times - www.ft.com
Ai Weiwei apparentemente si dedica a qualsiasi mezzo. L'artista e attivista ha esplorato alcune delle sue preoccupazioni - spostamento forzato, potere autocratico, rivolta popolare - con enormi sculture, piatti di porcellana e documentari negli ultimi anni. Ora ha abbracciato probabilmente la forma d'arte più complessa di tutte. La nuova produzione della Turandot al Teatro dell'Opera di Roma, rinviata da due anni a causa della pandemia, è la sua prima incursione nell'opera; come ha ripetutamente detto nelle interviste, sarà anche l'ultima.
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Ai trasforma il racconto di Puccini sulla vittoria dell'amore sulla brutalità in un grido di battaglia per gli oppressi del mondo. La formazione dei musicisti ha involontariamente sottolineato l'attualità di questa visione. La direttrice d'orchestra ucraina Oksana Lyniv ha scritto una lettera aperta di sfida a Vladimir Putin e ha preso a dirigere con una fascia con i colori della bandiera ucraina avvolta intorno alla vita. Nella produzione romana, è affiancata dalla sua connazionale Oksana Dyka nel ruolo del titolo.
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Ma la messa in scena bizzarra e non focalizzata di Ai offre poche intuizioni significative. Questa tentacolare produzione multimediale - per la quale l'artista ha fornito la scenografia, i costumi e i video - è satura di riferimenti alle sue installazioni più note, con copricapi a forma di bomba, video di telecamere di sorveglianza e filmati di documentari proiettati che raffigurano la serrata di Wuhan, le proteste di Hong Kong e i rifugiati Rohingya. Confusamente, Ai mescola abiti sontuosi, danze del drago e altre rappresentazioni da cartolina della Cina tradizionale con abiti futuristici ispirati agli insetti. Un'inspiegabile grande rana si aggrappa alla schiena di Calaf per gran parte del primo atto.
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Ci sono rari sprazzi di pregnanza: le immagini video delle proteste di Hong Kong che accompagnano la folla urlante del primo atto evocano con forza il senso della lotta; immagini commoventi di un campo profughi vengono mostrate quando Liù canta le parole "Noi morrem sulla strada dell'esilio! ("Moriremo sulla strada dell'esilio!"). Altre allusioni sembrano tenui e forzate, non ultimo quando i volti proiettati di Chelsea Manning e Edward Snowden trasformano "Nessun dorma" in un inno generalizzato alla lotta insonne contro l'oppressione.
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Se il dramma centrale sembra trascurato, non aiuta il fatto che la lettura grossolana di Lyniv della partitura non riesce a dare vita ai personaggi. L'esecuzione è generalmente forte e priva di sfumature, e i passaggi di esotismo potenzialmente trasportante sono privi di magia. Ai ha tagliato la scena d'amore finale che Franco Alfano scrisse dopo la morte di Puccini, il che significa che questa messa in scena finisce con la morte di Liù piuttosto che con la solita redenzione. Date le performance legnose della serata di apertura, questa riduzione non era sgradita.
Il corposo Calaf di Michael Fabiano è vocalmente impressionante ma monodimensionale, mentre la penetrante Turandot di Dyka ha poche possibilità di sviluppare il personaggio, dato il taglio. Francesca Dotto ha offerto momenti profondi come Liù, ma gli spiritosi Ping, Pang e Pong (Alessio Verna, Enrico Iviglia e Pietro Picone) non sono riusciti a tagliare attraverso la messa in scena sovraccarica. Questa produzione contiene abbastanza contenuti per rivaleggiare con la nuova mostra retrospettiva di Ai a Vienna. Il problema è che c'è poco spazio per Puccini.
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TROPPI VIDEO, ECCO IL VERO ENIGMA DI TURANDOT
Corrado Augias per “la Repubblica”
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Per una casuale concatenazione di eventi, abbiamo avuto a Roma due Turandot una dopo l'altra. La prima a Santa Cecilia in forma di concerto (scintillante direzione di Antonio Pappano); la seconda al Teatro dell'Opera in una completa forma scenica con la rigorosa direzione musicale di Oksana Lyniv.
Notevole direttrice, prima donna chiamata a dirigere a Bayreuth, Lyniv s' è presentata in palcoscenico per i ringraziamenti finali con un'alta fascia alla vita recante i colori (giallo e blu) della bandiera ucraina, il che ha rafforzato il calore degli applausi. A Santa Cecilia l'opera, lasciata incompiuta, è stata eseguita con il finale postumo del maestro Alfano.
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All'Opera s' è scelto di eseguire solo la partitura che Giacomo Puccini ebbe modo di finire. Un finto finale diciamo, però orchestrato da Lyniv con tale finezza da farlo diventare quasi vero. Il cast dell'esecuzione ceciliana complessivamente era superiore, soprattutto nel ruolo di Liù affidato a Ermonela Jaho, e per l'interpretazione magistrale di Sondra Radavanovsky nel ruolo del titolo.
corrado augias con la nipote micol foto di bacco
Il vero punto discutibile nella messa in scena al teatro Costanzi è stato però il lavoro dell'artista cinese Ai Weiwei che s' è addossato l'enorme carico di "regia, scene, costumi, video", troppo per chiunque, in particolare per lui che si misurava per la prima volta con uno spettacolo lirico. Infatti, l'esito non è stato positivo per almeno due ragioni, una di merito una di metodo. Faccio un passo indietro.
Quando Damiano Michieletto un paio di estati fa curò la regia di Rigoletto in un allestimento estivo al Circo Massimo, ci furono notevoli polemiche, ospitate anche su questo giornale, perché la vicenda era stata attualizzata trasformando la corte di Mantova in un ambiente che rievocava, si disse, gli anni ‘70 con la mafia del Brenta capeggiata da Felice Maniero.
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Nel dibattito si confrontarono i sostenitori dell'intangibilità delle indicazioni del libretto e quelle di chi sosteneva che rendere più attuale la vicenda è lecito purché i cambiamenti siano coerenti con lo spirito originale dell'opera. Nel caso di Michieletto una corte di scellerati guidata dal malvagio duca di Mantova era stata trasformata in una banda di moderni malfattori.
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Una visione analoga è stata adottata, per esempio, dal regista Davide Livermore per il verdiano Macbeth che ha inaugurato nel 2021 la stagione della Scala. Due spunti interni al lavoro sono diventati le guide lungo le quali far procedere l'azione: la malvagità che s'annida nel cuore umano, gli effetti prodotti da una dittatura sanguinaria. C'era forse qualche eccesso di tecnologia nell'allestimento, ma l'effetto - grazie anche al livello degli interpreti - era una convincente distopia.
IL RIGOLETTO DI DAMIANO MICHIELETTO AL CIRCO MASSIMO
Perché questo è mancato ad Ai Weiwei? Perché le sue nobilissime e condivisibili intenzioni non avevano nulla a che fare con la vicenda musicata da Puccini. Sul fondo scena si sono susseguite senza interruzione una valanga di bombe, missili, profughi in cammino, migranti minacciati dallo tsunami, guerrieri antichi e moderni nell'atto di scannarsi, brutali cariche della polizia, città immerse nella rossastra luce del sangue.
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In un'intervista l'artista cinese ha dichiarato: «Ai consueti elementi scenici voglio aggiungere i video per infondere nuova linfa all'opera». Nobile proposito, ma c'è modo e modo. Perché la linfa scorra davvero è necessario che i video abbiano uno stretto rapporto con la vicenda.
Non basta che esprimano i lodevoli sentimenti del regista. È anche necessario il senso della misura nel senso che il turbinio di video non deve schiacciare il resto della messa in scena, né distrarre, come purtroppo è avvenuto al Costanzi, dalla musica e dal canto. Ai Weiwei ha confessato: «Considero la musica una forma d'arte lontana dalla mia sensibilità». Direi che a Roma lo ha dimostrato.
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