Aka 7even per “Tuttolibri – La Stampa”
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Scrivere per me significa riuscire a dire quello che provo. Non sono mai stato bravo a mostrare le mie emozioni né a condividerle, usando la voce. Le parole si sono sempre fermate prima di uscire dalla bocca, come bloccate da una grande paura. O forse semplicemente perché quello che avevo da dire non mi sembrava abbastanza.
Ho sempre nascosto i miei sentimenti, anche i pensieri, per paura di essere giudicato. Non troppo bravo a parlare, ho trovato nella musica la mia espressione. E nella musica ho visto che le parole potevano uscire senza fatica, come se nessuno mi stesse guardando.
Mi sono sempre sentito osservato, ho sempre avuto paura dello sguardo degli altri. Mi sono visto brutto, diverso, spesso sbagliato. Ma non riuscivo a dirlo. Non potevo dirlo. Né ai miei genitori, che vedevo fare fatica per assicurare a noi figli tutto quello di cui avevamo bisogno, non volevo dare problemi, né ai miei amici, che non sono mai stati molti, in un ambiente scolastico dove spesso era più facile prendere in giro che starsi vicino.
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Ho vissuto momenti di grande solitudine, restando in silenzio e non esagero se dico che scrivere mi ha salvato. Ho iniziato a farlo perché ho trovato la musica. E ho trovato la musica perché avevo bisogno di una luce dopo il buio di sette giorni di coma che hanno stravolto la mia vita.
I dottori non ci speravano, «preparatevi al peggio» hanno detto a mia madre, eppure io mi sono svegliato e quando ho aperto gli occhi ho chiesto di poter suonare il pianoforte. Avevo sette anni ed è su quei tasti che, dopo qualche tempo, ho dato voce alle mie prime vere parole. Senza filtro, sincere. La scrittura per me è sincerità. È riuscire a dire ad alta voce quello che provo. È espressione di me, senza filtri.
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Ho iniziato per bisogno, ho continuato perché mi è piaciuto. Perché ogni parola in più, su una nota diversa, mi faceva stare meglio. Non vuol dire che lo sapessi fare bene. Scrivere è un talento che va coltivato, serve esercizio per migliorare. Ci vuole tempo, costanza, insistenza.
Le prime parole aiutavano me, ma non vuol dire che fossero pronte per essere condivise con altri. Frasi a volte banali, rime spesso sbagliate, quella voglia di sentirmi "poeta" con la consapevolezza che servisse tempo per imparare. Me lo sono preso. Scrivere una canzone oggi penso che sia come scrivere una poesia. Un testo breve, che dentro deve avere tutto. La storia, la metrica, il ritmo, su immagini che possano raccontare emozioni.
Ci ho messo un po'. E ho buttato tantissimi testi. Ne ho rilavorati altrettanti. Perché è raro per me che le parole escano tutte giuste al primo colpo, a volte succede, ma è più normale rileggere, cambiare, soppesare. Sono un pignolo, ci tengo che tutto suoni nel modo giusto. Mi capita anche di trovarmi di fronte a qualcosa che avevo scritto e che non mi piace più. E allora provo a cambiare.
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Credo che la scrittura sia cambiamento. Se cambio io, cambia lei. E viceversa. Mi accompagna, mi aiuta a vedere chi sono. Sono anni che riempio le stanze di fogli sparsi e pezzi di carta, trascrivo vocali, prendo appunti su mille quaderni, intasando il telefono di note a metà che poi perdo, ritrovo, rileggo, cancello, modifico, riscrivo. Mi appunto quello che vedo, le frasi che sento, le cose belle e quelle brutte, gli incontri importanti, le persone che perdo e che sono ferite, a volte profonde, che curo con una canzone. Butto giù pensieri che poi devono prendere forma e quando sento il dolore lo plasmo in parola. Penso a una struttura fatta di strofe e incisi che diventano canzoni, invento barre e le appoggio parlando di me.
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Parlo sempre di me, anche quando parlo di altri. Che si tratti di canzoni o di brani autoriali, sono fermamente convinto che la scrittura debba partire da dentro per arrivare fuori. Ho ascoltato tanta musica, ho letto tanti libri nella mia vita, ma le storie che mi hanno davvero lasciato qualcosa sono sempre state quelle in cui l'autore mi ha regalato un pezzo di sé, del suo mondo, della sua visione. Ecco perché anche quando ho provato a scrivere un libro, ho voluto che partisse da me.
Da quel coma, da quel dolore. Ma non sono uno scrittore, non potevo farlo da solo. Pignolo, dicevo, ho voluto affiancarmi di una figura professionale per essere accompagnato, per riuscire a dire quello che avevo nella testa e che volevo diventasse una storia. Ho sperimentato così una scrittura completamente diversa da quella a cui ero abituato, ho dovuto mettere in ordine i pensieri e andare a scavare nei miei ricordi, ripercorrendo gli episodi che mi hanno reso quello che sono.
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Ho scavato dentro di me, con la speranza di poter parlare al maggior numero di persone possibili. Ho avuto il bisogno di ritornare a quei giorni bui, per comprendere chi sono diventato. E con Silvia Gianatti, autrice a cui sono grato, ho imparato ad allungare i periodi, a descrivere i pensieri, a parlare alle persone attraverso la parola scritta, senza alcuna nota a supporto. Lo abbiamo fatto insieme ed è stato come immergersi in una seduta di psicanalisi con me stesso e quando ho messo il punto finale mi è sembrato di conoscermi un po' di più. E scrivere forse è anche questo: conoscersi, capirsi.
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Ho scritto per me, ho scritto dedicando ad altri, ho vomitato rancore, esploso l'amore, descritto il dolore. Quando ho deciso di scrivere 7 vite è stato per dar voce a una sofferenza che mi porto dentro da anni. Ho voluto metterla in pagina per provare a vedere se quella cosa che dicono, che la scrittura è catartica e ti aiuta a elaborare i dolori, fosse vera.
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Ho rimesso in ordine i pensieri, ho scelto di dire chi sono, cosa ho vissuto e cosa penso, per fare pace con me. Mi ha fatto estremamente bene. E per questo vorrò continuare a farlo. Perché mi è piaciuto. Perché ho ancora così tante storie da raccontare, non solo in musica.
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