(A vent’anni dalla scomparsa di Carmelo Bene, il Teatro Argentina ospita “Il congedo impossibile” e Dagospia ospita “Il congedo necessario”)
BENE DOTTO ELISABETTA SGARBI
DOTTO BENE 3
DOTTO BENE
Sono giorni di manifestazioni e congedi non autorizzati oltre che impossibili. Una volta ogni dieci anni, Carmelo spacca. Con la scusa di celebrare Carmelo celebriamo noi stessi, le nostre piccole, ma così piccole, patetiche spoglie e voglie mortali. Chi ha dato il permesso? Buscaglione, può darsi. Non certo Carmelo. Lui non l’avrebbe mai dato. Lui non autorizza che, eventualmente, se stesso. Abusiamo della sua benevola assenza, avendola equivocata (l’assenza). Siamo come la banda di scolaretti che se ne approfitta quando il Maestro fuori (della) classe s’è assentato dieci minuti o una vita a fumarsi una sigaretta o a diventare lui stesso cenere.
Il Maestro non c’è, assente giustificato oltre che impossibile, e noi facciamo del mondo il nostro posto delle fregole. Approfittando che non ci vede, organizziamo quatti quatti la nostra piccola baldoria. Il nostro pic-nic all’aperto, da consumare in fretta, ingaggiando un paio di trombe, confezionando il fiocco e un elegante elzeviro, benedetti da qualche istituzione, meglio se televisione, rapidi, dovesse mai riapparire, l’Orco celeste, lesti a raccogliere le briciole (Carmelo odiava le briciole e, che mi risulti, le odia tutt’ora), a far sparire le tracce della marachella e a tornare alle nostre mediocri faccende di tutti i giorni. Aspettando, i più ottimisti di noi, il trentennale.
CARMELO BENE
Fosse stato ancora dentro l’equivoco d’essere vivo, Carmelo, avrebbe certo, questa volta sì davvero pisciato dal suo balcone in rovina su tanta maleducata celebrazione, fatta senza il suo permesso, nel nome dei giovani e per bocca di attori. Lui che detestava l’anagrafe, i giovani e gli attori. O l’avrebbe a modo suo liricamente oscurata, come fece con la sua morte immanente, quando oscurò per l’appunto lo specchio della camera da letto con le pagine della Gazzetta, ma solo perché erano rosa. Il rosa e il nero, i colori della sua equivoca vita.
Carmelo Bene e Giancarlo Dotto
Quando la ricreazione sarà finita, quando sarà finita la scampagnata delle cimici, il turismo delle anime belle, di donne, compagne, vedove, orfani, amici, veri, per lo più immaginari, intellettuali e adoranti (i due concetti spesso coincidono), tornati ai trastulli di un tempo, ai vecchi cari e ai nuovi acari (avete notato, a proposito di incubi, quanto Putin somiglia alla gigantografia di un acaro?), i più lucidi di noi torneranno alla conclusione di sempre: Carmelo Bene non ci riguarda. Tanto meno ci appartiene. Riguardava forse, senza mai appartenersi l’uno con le altre, le donne che negli anni ne hanno medicato ferite e ustioni da guerra (Carmelo era in guerra dal giorno in cui era venuto al mondo), utilizzando quello che avevano, l’oscenità prima ancora dei farmaci, flebo di amore e di barbiturici, per indurlo ai suoi casti pensieri ed, eventualmente, al tribolato sonno.
Carmelo Bene e Giancarlo Dotto
Nemmeno il Carmelo ventenne ci apparteneva. Quello, posseduto dalla nascita, che piombò a Roma, carro partorito e armato da un delirio, e si presentò alle porte dell’Accademia nazionale d’Arte Drammatica per sperimentare la prima necessaria, drammatica incomprensione. Una bocca da fuoco che parlava come Antonio Cassano.
giancarlo dotto e carmelo bene
Non che ci fosse scelta. Una volta che sei nato Carmelo, non puoi essere altro. Farla diventare la tua guerra privata e pubblica. Cambiava l’elmetto, cambiava la divisa, cambiavano le armi, ma non cambiava l’intento e nemmeno l’evento. Che fosse Tamerlano, Pinocchio, Amleto, ma non quello amletico, quello che il teschio lo palleggiava al circo insieme alle foche. Mentre gli altri praticavano la lotta di classe e la lotta continua, lui giocava fuori della classe, sul ring del farsi fuori, preferiva il Joyce-stick al megafono, il luna-park dei suoni alle assemblee degli slogan, in attesa d’avere il giocattolo della vita, la sua strafica consolle dentro i più lussuosi teatri.
giancarlo dotto twitta carmelo bene
Solo ciò che è indicibile accade veramente. Non lo sappiamo mai abbastanza. Carmelo lo sapeva. Stregato ragazzo da Joyce, ammaliato adulto da Lacan, e poi da Bacon oltre che da Marco Van Basten e Ray Sugar Leonard, aveva finalmente (e forse tardivamente) incontrato Beckett al culmine della sua e della loro storia.
Dopo aver lasciato che intellettuali, critici e cimici banchettassero con il suo spumeggiante cadavere da vivo, lui ha deciso un giorno di fare da sé, di autorizzarsi, l’unico a poter scrivere tatuaggi indelebili sulla sua carne putrescente e non più sperante, bruciato vivo, assediato dalle voci di dentro che erano le stesse di quelle di fuori, e poi assediato da sé, l’unica voce possibile.
Fu così che, nella sua ultima recita, più che mai in-vulnerabile da Achille tolse di scena le sue residue spoglie mortali, lasciando in quinta un rosario beckettiano di suoni disarticolati e farfugliamenti. Gli ultimi spasimi, per capirci, in attesa dell’impareggiabile fair-play del cadavere.
carmelo bene morante
Anche lì, agli spettatori, lo stesso monito: fate silenzio in platea, anche la disfatta del genio non vi riguarda. Così fu scritto nel programma di sala, e poco importa se toccò a me farlo. Curioso che ad ospitare la maldestra scampagnata beniana di questi giorni, una caciara assortita, profittando dell’assenza di Bene, sia proprio lo stesso Teatro Argentina di allora. Temerari tutti, gli uni che ospitano e gli altri che celebrano. Congedi inevitabili, altro che impossibili. Necessari.
Quando, a dirla tutta, e Carmelo ci perdoni se lo diciamo a nome suo, alla fine del suo strepitoso viaggio, tra madonne turchine, pinocchi, tamerlani e amleti, angeli di gesso e demoni di carne, voci dalle torri, e poi solo sospiri e rantoli, in fondo al riso e poi la smorfia, ubriacandosi di tutto, di donne, di vino, di amici, di versi e di polvere, per essere proprio sicuro di non aver lasciato nulla d’intentato, che fosse proprio tutto vero, che tutto era un inganno, prima di darsi definitiva la zappa sui piedi e raccontarlo, quel tutto, sotto le mentite spoglie una biografia nella quale era il primo a non credere.
carmelo bene
Perché lui voleva scrivere solo il male dei fiori e, infatti, lo scrisse, prima di ospitare il cancro che avrebbe finalmente reciso l’ultimo petalo di questa manfrina che è l’essere al mondo. Quanto infine restava dietro quel diaframma reciso dal bisturi, solo la vergogna d’essere vivo, tutti gli specchi da oscurare. E poi solo cenere.
Carmelo ha portato a spasso per il mondo l’indispensabilità di essere Carmelo, poi la virtù, la disgrazia, il disturbo e, in fondo, la vergogna di essere stato, Carmelo e qualunque cosa. Quando, alla fine dei giochi, fu solo un farfugliante monaco eremita che andava a pane e orzo e cantava le arie di Rossini per i corridoi della sua casa di Otranto affacciata sul canale e sui turchi. Cucinare il pescespada alla brace per i pochi amici, il suo unico svago mondano.
Fosse nato mezzo secolo dopo, l’eventuale Carmelo Bene non sarebbe stato riconosciuto. Mancava il contesto. Invece che un dannatissimo mito vivente, costola del famigerato Acmet Pascià, avresti incrociato il suo sosia in qualche polverosa strada della campagna salentina, un anonimo squilibrato in preda alle sue farneticazioni. Sarebbe stato, nella migliore delle ipotesi, un brillante avvocato di provincia. I suoi occhi obliqui e il suo eloquio sfrenato, invece che nei grandi palcoscenici del mondo, avrebbero fatto strage di cuori tra le signore nelle aule di tribunale del Foro di Lecce.
CARMELO BENE
Sarà per questo che gli unici veramente autorizzati a spiarlo da qualunque buco della serratura sono e saranno i giovani mai stati giovani, ragazzi d’oggi ma attratti dallo strapiombo del ieri, che non hanno mai frequentato e visto Carmelo Bene nell’equivoco del “vivo”. E che passano le ore in rete a curiosare nelle rovine della sua necropoli, a frugare e trafugare tesori di questo inconcepibile barbaro, ammaliati dall’inaudita bellezza della sirena che ci ha raccontato come si può essere leggiadri in fila in un mattatoio, nella decina di metri che ci separano dal crederci qualcuno e la scure o la pallottola che ci precipita nell’oscurità del ritrovarci nessuno.
ARCHIVIO CARMELO BENE
Carmelo Bene insiste come mito più che mai incomprensibile ma carico di seduzione per ragazzi probabilmente autistici che, al riparo dei rumori contemporanei, covano il presentimento di qualcosa di enorme che è stato. Ascoltano e guardano Carmelo come si ascoltano le voci degli astronauti dispersi nel cosmo. Il congedo da questa grandezza, proprio perché necessario, li rende e ci rende inconsolabili. Non ci sarà mai più un altro Carmelo Bene. Se anche ci fosse, non ci sarebbero più occhi e orecchie per riconoscerlo.
CARMELO BENE
Carmelo Bene, una rockstar come Elvis Presley e Jim Morrison . Ma senza il loro battage e il loro forsennato merchandising. Era la voce di una rockstar che precipitò quella notte di quarant’anni fa dalla Torre degli Asinelli sui duecentomila in piazza, mai stata così divina la commedia.
Tornare da dove si è venuti, senza essere mai stati, Carmelo Bene è stato questo: un’equazione perfetta. L’ultimo umanista, l’ultimo asino e l’ultimo assassino. Un’immensa perlustrazione di come si può andare con decenza da un capo all’altro del viaggio assurdo.
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