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Angela Madesani per www.artribune.it
Margaret Bourke-White è stata una professionista nel senso più completo del termine. “La mia vita e la mia carriera non hanno nulla di casuale. Tutto è stato accuratamente progettato”, diceva. Nata a New York nel 1904, figlia dell’alta borghesia imprenditoriale, studia fotografia con la pittorialista Clarence H. White.
Apre il suo primo studio fotografico a Cleveland, in Ohio, nel ’28. Influenzata dall’attività del padre, in un primo tempo si dedica alla fotografia di industria, architettura e design. Tra i suoi clienti più importanti, le acciaierie Otis. La fotografa – perfezionista, ambiziosa, mai spaventata dal lavoro – riesce a dare una chiave autoriale alla fotografia industriale. Le sue inquadrature, il suo utilizzo delle luci sono magistrali.
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Risale al 1929 la sua conoscenza con Henry Luce, caporedattore di Time, che la invita a collaborare con la neonata rivista Fortune. Margaret accetta, ma vuole rimanere indipendente, condizione che mantiene sino al 1936. Dello stesso anno è la pubblicazione di una sua fotografia sulla copertina del primo numero di Life.
Luce aveva, infatti, comprato i diritti di una storica rivista umoristica americana, per dare vita a quella che in breve sarebbe diventata la più famosa rivista illustrata e di fotogiornalismo al mondo. La foto aveva per soggetto i lavori ultimati per la costruzione della diga di Fort Peck, nel Montana. Un’immagine che rappresenta in pieno la ricostruzione, nell’epoca del New Deal, che segna gli anni della presidenza Roosevelt.
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UNA FOTOGRAFA SENZA PAURA
Nel 1930 è la prima tra i fotografi occidentali ad andare in Unione Sovietica, dove ottiene il raro permesso di fotografare Stalin. Suo, infatti, è il primo ritratto non ufficiale del dittatore, con circolazione autorizzata al di fuori del territorio sovietico. “Con il mio entusiasmo per la macchina come oggetto di bellezza, sentivo che la storia di una nazione che cercava di industrializzarsi, praticamente da un giorno all’altro, era disegnata su misura per me […].
Nonostante il mio approccio non fosse tecnico, frequentai le fabbriche a sufficienza per capire che l’industria produce una storia, le macchine si sviluppano e gli uomini crescono insieme a loro. Era un’occasione unica per osservare un Paese nel passaggio da un passato medievale a un futuro industriale”.
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Per Life, dove la chiamano “Maggie l’indistruttibile”, è corrispondente di guerra durante il secondo conflitto mondiale. Documenta così, nel 1941, l’assedio di Mosca ed è al seguito dell’esercito americano in Italia. È presente alla liberazione di Buchenwald, di cui racconta le atrocità commesse.
Nel 1947 è in Pakistan e in India, dove realizza la famosa fotografia di Gandhi che lavora all’arcolaio. Qualche anno dopo arriva in Sud Africa, dove descrive l’Apartheid e discende nelle profondità della terra per narrare la terribile vita dei minatori d’oro neri.
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IMMAGINI E PAROLE SECONDO BOURKE-WHITE
La sua forza è stata quella di capire quanto stava accadendo nel mondo per trovarsi nel posto giusto al momento giusto, senza mai realizzare immagini sensazionaliste. Lei stessa nella sua preziosa autobiografia, Portrait of Myself, redatta negli anni dolorosi della malattia, scrive:
“Mi svegliavo ogni mattina pronta a ogni sorpresa che il giorno mi avrebbe portato. Amavo il passo veloce delle commissioni di ‘Life’, la felicità di attraversare l’ingresso di un nuovo territorio. Tutto poteva essere conquistato. Niente era troppo difficile. E se avevi tempi stretti, tanto meglio. Dicevi sì alla sfida e costruivi la storia”. Una storia che Margaret ha costruito sino al 1971, l’anno della sua morte, prima con le immagini e poi con la scrittura.
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LE SEZIONI DELLA MOSTRA SU BOURKE-WHITE A ROMA
La mostra dedicata a Margaret Bourke-White dal Museo di Roma in Trastevere è divisa in undici sezioni.
La prima L’incanto delle acciaierie, propone il lavoro realizzato durante gli anni giovanili nel campo della fotografia industriale. Conca di polvere, la seconda sezione, documenta i lavori di tematica sociale, portati a termine durante gli anni della Grande Depressione nel Sud degli Stati Uniti. La terza è dedicata alla proficua collaborazione di Bourke-White con Life, mentre Sguardi sulla Russia racconta gli anni sovietici di Margaret, durante i quali documenta le fasi del piano quinquennale.
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La quinta sezione, Sul fronte dimenticato, esamina il periodo della Seconda Guerra Mondiale, epoca in cui la fotografa è corrispondente in Europa per Life. La liberazione di Buchenwald è documentata in Nei Campi. Qui la fotografa, sconvolta da quanto si trova di fronte, dichiara: “Per lavorare dovevo coprire la mia anima con un velo”. La settima sezione guarda all’India, alla sua indipendenza e alla separazione dal Pakistan.
Il Sud Africa durante l’Apartheid è il protagonista dell’ottava sezione, mentre è un lavoro a colori del 1956 a costituire il nono capitolo della mostra, Voci del Sud bianco, incentrato sul tema del segregazionismo nel Sud degli Stati Uniti.
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In alto e a casa è la penultima sezione, che raccoglie le più importanti immagini aeree di Bourke-White. La sezione conclusiva, biografica, è intitolata La mia misteriosa malattia, in cui la fotografa, colpita dal morbo di Parkinson, è il soggetto del reportage dal grande Alfred Eisenstaedt.
INTERVISTA ALLA CURATRICE ALESSANDRA MAURO
Qual è il testimone, umano e professionale, lasciato da Margaret Bourke-White alle generazioni successive?
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Mi affascina la sua costruzione del personaggio, una costruzione fatta scientemente, in modo sistematico. Margaret ha sconfitto una serie di barriere apparentemente insormontabili, arrivando dove voleva arrivare. Al punto che, alla fine della sua vita, nel momento della malattia, diventa lei stessa soggetto dei ritratti che Alfred Eisenstaedt le fa, non temendo di andare contro l’immagine che aveva creato di sé. Era così forte da permettersi di dimostrarsi debole. La sua è stata una lezione di vita e di fotografia importante e spero che la mostra riesca a porre in evidenza questi due aspetti.
Vorrei affrontare un problema un po’ annoso, che riguarda le mostre di fotografia: materiali vintage o ristampati?
Secondo me è un problema che va affrontato a seconda dei casi. Talvolta ha senso fare delle mostre in cui si recuperano i vintage, ma Bourke-White non aveva una grande passione per le foto d’epoca e inoltre già negli Anni Trenta, tra i primi a farlo, realizzava delle gigantografie giocando con i formati e gli ingrandimenti.
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Lavorando alla preparazione della mostra insieme a Life, abbiamo recuperato una serie di stampe ai sali d’argento, non vintage, realizzate una trentina di anni fa. Mancavano alcune immagini che sono state ristampate in occasione della mostra, per esempio la sezione di fotografie a colori del 1956.
Per alcune mostre di fotogiornalismo non sempre è così importante mostrare materiali vintage. In questo caso, ad esempio, avrei mai potuto non esporre il suo ritratto a Gandhi, funzionale per capire la sua modalità operativa, così connaturata alla tradizione di Life?
In che senso?
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Bisogna considerare che Life è nata e ha avuto la sua massima espansione in un momento in cui il mezzo di comunicazione più diffuso era la radio. Life svolgeva il compito di colmare con le immagini le informazioni solo sonore. I ritratti “alla Life” dovevano essere come quelli di Margaret: immediati, sintetici, spesso frontali e senza possibili doppie letture.
Così i lettori potevano subito ritrovarvi tutti gli elementi identificativi di un particolare personaggio. Se oggi di ogni personaggio abbiamo mille immagini e a un fotografo chiediamo di mostrarci qualcosa di più, per Margaret e i suoi colleghi di Life era diverso.
Oggi possono ancora esistere personaggi come lei?
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L’attualità ha bisogno di essere raccontata in modo diverso, perché è cambiato il mondo, in particolare quello dell’informazione. Esiste oggi un equilibrio differente tra fotografia privata e fotografia pubblica, documentazione intima e documentazione storica.
Per Margaret era completamente diverso: infatti noi non conosciamo le sue immagini private e sembra che negli ultimi anni della sua vita abbia distrutto tutta la documentazione che non voleva fosse tramandata.