Letizia Tortello per “la Stampa”
i colloqui tra le delegazioni di kiev e mosca
La musica di accompagnamento della delegazione russa a Gomel suonava come se Putin volesse fare fallire i negoziati. A guidarli, per il Cremlino, non c'era un diplomatico o un militare, ma l'ex ministro della Cultura Vladimir Medinsky, nazionalista estremo, fedelissimo al presidente, che ha contribuito a costruire la propaganda in questi anni. Autore di libri di grande diffusione, sostiene che fin dalle origini della Russia, l'Occidente ha fatto di tutto per impedirne l'ascesa.
vladimir medinsky
Le sue tesi sull'esistenza di popoli non russi nell'impero zarista e in Unione Sovietica sembrano un modello perfetto per negare all'Ucraina il diritto di esistere, come vorrebbe Putin. Medinsky è anche produttore di film di guerra, pieni di falsi storici: «Non abbiamo bisogno di storia, ma di leggende sacre», è una delle frasi topiche. Come dire che se mandi a negoziare uno degli ideologi del disegno zarista, non sei proprio disposto ai compromessi. Ad accompagnarlo, seconde file e falchi.
andrei rudenko
Il primo è uno dei vice del ministro degli Esteri Lavrov, Andrei Rudenko, che cura i rapporti con le repubbliche ex sovietiche, soprattutto Ucraina, Bielorussia e Moldavia. Poi un vice della Difesa, Aleksandr Fomin, il presidente della Commissione Esteri della Duma, Leonid Slutskiy, e il rappresentante russo nel gruppo di contatto trilaterale, Boris Gryzlov. Gli ultimi due sono stati sanzionati da Ue e Usa nel 2014 per il ruolo attivo nell'annessione della Crimea.
aleksandr fomin
Comunque, non appartengono alla ristretta cerchia che influenza davvero la politica russa. Gryzlov è stato presidente del parlamento russo nel primo decennio del governo Putin, è ricordato per aver affermato che la Duma non è luogo di discussione. Slutskiy è uno di quegli oratori d'élite, non estraneo a scandali: nel 2018, diverse importanti giornaliste l'hanno accusato di molestie, lui ha negato, le accuse sono finite nel nulla.
david arakhamia
Sul lato ucraino, la composizione dei negoziatori mostra due cose: quanto la leadership di Kiev abbia preso con serietà i colloqui, e quanto sia lontana dalla realtà l'affermazione ripetuta dai russi, secondo cui il Paese «nazista» sopprime sanguinosamente tutto ciò che non è purosangue ucraino. Capofila, il ministro della Difesa, Oleksiy Resnikov. Con lui, Davyd Arachamia, passaporto ucraino solo dal 2015.
Quando aveva 13 anni, la sua famiglia è stata tra i 250 mila georgiani costretti a lasciare l'Abkhazia durante i combattimenti del 1992, la regione della Georgia riconosciuta dopo il 2008 «Stato indipendente». Oggi è imprenditore di successo, raccoglie denaro per le forze armate ucraine. Con loro anche Mikhail Podoliak, consigliere presidenziale: ha vissuto in Bielorussia, ha lavorato come giornalista per media in lingua russa, fino a quando è stato deportato in Ucraina nel 2004 per articoli critici con Lukashenko.
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Infine, c'era Rustem Umerov, tataro di Crimea eletto nel 2019 per un partito avversario di Zelensky, tiene i rapporti con le repubbliche filorusse. Nel mezzo avrebbe dovuto esserci l'undicesimo uomo, Roman Abramovich, oligarca del business post-sovietico in Russia, patron del Chelsea e mister 14 miliardi di dollari. L'avevano voluto gli ucraini come mediatore, ma è giallo: nelle foto ufficiali non compare.
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