Alberto Mattioli per www.lastampa.it
otello al rossini opera festival
Produzione di punta del Rossini Opera Festival in corso è “Otello”, ovviamente quello di Rossini, secondo capolavoro “serio” della stagione napoletana, scritto nel 1816 su libretto del super intellettuale Francesco Berio, marchese di Salsa. Non è certo più una rarità né una riscoperta: ormai sono anni che l’opera è tornata in circolazione.
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Il suo vero problema, però, rimane il titolo. Si chiamasse, poniamo, “Adelaide in Trebisonda”, nessuno tirerebbe in ballo Shakespeare perché, molto semplicemente, di quest’“Otello” il Bardo è sì la fonte, ma molto alla lontana. Per due dei tre atti, si tratta in realtà di una classica opera seria dell’epoca, dove Desdemona è contesa fra due tenori, Otello e Rodrigo, che fanno a gara a chi ha il do acuto più lungo, mentre le trame del perfido Iago (così, senza “j”, e tenore pure lui) rimangono abbastanza vaghe, e il fazzoletto fatale è sostituito da una ciocca di capelli.
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Il Rossini in Salsa diventa invece abbastanza simile al “feroce Shakespeare” (così lo chiamò il “Giornale del Regno delle Due Sicilie”, e in effetti per una pubblica opinione di formazione e gusto classicista davvero “feroce” doveva sembrare) nel terz’atto con il finale tragico, insolito per l’epoca. Non a caso, per decenni ci siamo dovuti sorbire recensioni che indicavano nel terz’atto, in effetti stupendo, quello della “poesia”, mentre i due che lo precedevano erano convenzionali eccetera.
rosetta cucchi
Oggi che finalmente possiamo leggere Rossini non alla luce di quel che è venuto dopo, “Otello”, e tutto, sembra una delle sue opere serie migliori, inizio di quel percorso di sperimentazione che porterà agli ipercapolavori napoletani “Ermione” e “Maometto II” finché, nel ’23 a Venezia, chiudendo la sua carriera italiana, Rossini cercherà l’impossibile reductio ad unum delle spinte centrifughe del suo teatro in quel capolavoro utopistico che è “Semiramide”.
Fatto sta che per tutto l’Ottocento, almeno fino all’arrivo di quello di Verdi, “Otello” rimase uno dei titoli più popolari di Gioachino, infinite volte citato, illustrato, parodiato, dipinto: anche da Delacroix, la cui “Desdemona maledetta dal padre”, per l’Argan che ci infliggevano al liceo era un soggetto shakespeariano, mentre in Shakespeare non c’è: è tutta farina del sacco di Berio. Del resto, in un’opera seria vogliamo non mettere un padre maledicente perché la figlia primadonna si innamora del tenore sbagliato?
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La nuova produzione firmata da Rosetta Cucchi, nell’infame Vitrifrigo Arena (in quarant’anni, il più importante festival musicale italiano non è stato capace di dotarsi di un teatro decente) sembra fatta apposta per rinfocolare le grottesche polemiche sulle “regie” moderne, rilanciate dalle sciocchezze dette da un celebre baritono in una recente intervista.
Ambientazione moderna, per cominciare, in una casa altoborghese, e con il Moro di Venezia senza blackface, dunque del tutto bianco (del resto, anche nell’Ottocento molti Otelli avevano la faccia bianca, e si sa che, come insegnava Tomasi di Lampedusa, il “Moro” del Cigno era probabilmente un cognome, uno dei tanti Moro, Morini, Moretti, Moroni e simili, tipici del Nord Italia).
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Cucchi decide che “Otello” è un caso di femminicidio. La scelta, in sé, non è né buona né cattiva: nei temi di “Otello”, il femminicidio sicuramente c’è, come ce ne sono altri. Al solito, il problema non è cosa, ma come: i registi si giudicano (esattamente come i direttori o i cantanti) non dall’idea che hanno dell’opera, bensì da come la realizzano. E qui la realizzazione non è solo coerente, ma anche efficacissima.
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E dunque: flashback iniziale con Emilia che torna sul luogo del delitto, ormai abbandonato; Desdemona prende ceffoni da chiunque, padre, marito e mancato marito; un bellissimo “Salice” danzato (ogni doppio mimante o ballante di solito mi dà l’orticaria, qui funziona benissimo). Straordinario è poi il finale secondo, un’aria “grande agitato” di Desdemona che lamenta smanie e affanno del barbaro ciel tiranno: il coro sono altrettante donne massacrate, in fila al proscenio insieme a lei, con un effetto irrealistico ma fortissimo, cui la musica asemantica e astratta di Rossini si sposa perfettamente. Grande spettacolo.
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Però, si sa, Rossini bisogna anche cantarlo, e non è mai una passeggiata. A parte un’Emilia improbabile, la compagnia è eccellente. Il protagonista, Enea Scala, è una delle migliori risposte al problema delle parti Nozzari, questi tenori dall’estensione abnorme che dovrebbero avere i gravi di un baritono e gli acuti di un soprano. Scala va su e giù per il pentagramma con sprezzo del pericolo e totale sicurezza. E non solo canta, e bene, ma interpreta e recita.
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Benissimo anche Dmitry Korchak in Rodrigo, parte David quindi iperacuta e superfiorita, acclamato dopo l’aria del secondo atto. Come Iago, Antonino Siragusa mostra la solita granitica professionalità, e sono buoni anche gli altri tenori comprimari e l’unico basso, magari non esattamente un rossiniano doc, Evgeny Stavinsky. Ma chi domina lo spettacolo è Desdemona, che è poi in effetti la vera protagonista. Eleonora Buratto è “il” soprano italiano di oggi, voce grande, bella, ben emessa.
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Però ormai canta “Don Carlo” e “Butterfly”, quindi se si era certi che la Canzone del salice (per le nostre orecchie depravate, più bella di quella di Verdi) sarebbe risultata la meraviglia che in effetti è stata, si nutrivano apprensioni per la stretta del terzetto e l’aria del secondo atto. Macché: agilità perfette, sgranate e “di forza” come Rossini comanda. In più, si vede che è convinta della regia, e la interpreta con forza e coraggio. Arcibrava.
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La direzione di Yves Abel non è particolarmente rivelatrice ma compiuta, puntuale e sicura. L’Osn Rai suona benissimo, e ha un nuovo cornista che fa meraviglie nel lungo assolo che introduce il duettino fra le donne. Il coristi del Ventidio Basso invece si
sentono poco: o sono troppo pochi o sono troppo dietro. Vitrifrigo (che nome, però) tutt’altro che piena ma plaudente, almeno alla prima replica. Gli assenti hanno sempre torto: stavolta, di più.
rosetta cucchi.