Roberto Gressi per il “Corriere della Sera”
DI BATTISTA CONTE
Accidenti, quanto tempo è che aspetta, bisogna pure capirlo. Cinque anni fa a Roma Alessandro Di Battista era come la Coca Cola: lo conoscevano tutti. Eppure, come candidata sindaca, Beppe Grillo scelse Virginia Raggi. Aveva ragione, eccome, nel breve periodo: lei asfaltò tutti gli avversari, a cominciare da quel Roberto Giachetti che Matteo Renzi le schierò contro.
Sul lungo periodo invece la ragione se l’è presa Roberta Lombardi che aveva vaticinato: useranno il nostro fallimento per cominciare a farci a fettine. Ma Dibba, come lui odia essere chiamato, non se ne curò. Anche perché Casaleggio gli aveva proposto di candidarsi lui, ma aveva risposto no. Perché il dovere del vero rivoluzionario è solo fare la rivoluzione, e lui non puntava a prendere il Palazzo Senatorio, ma il Palazzo d’Inverno.
panatta di battista
Ma ancora il commodoro Grillo, alla vigilia delle trionfali elezioni politiche, gli preferì l’amico Luigi, uno capace di fare un Roma-Napoli in macchina senza sapere nulla di nulla e arrivare avendo risucchiato tutto da chi lo accompagnava. Una spugna dell’apprendimento, che non teme sacrificio e fatica, e che impara dalle gaffe che pure non si è fatto mai mancare.
Mentre le truppe grilline, a Montecitorio e a Palazzo Madama, Di Battista lo appenderebbero per i piedi, un grillo (con la g minuscola) parlante, uno sputasentenze senza voglia di lavorare. Tutti pronti a schiacciarlo con la scarpa sulla parete.
L’ultimo assalto
Ma ora, Alessandro Di Battista, eccolo qui. Tra lui e la prima fila c’è solo un altalenante Giuseppe Conte, che forse rincorre l’intesa o forse punta alla disperata a sanguinose elezioni anticipate, per sventare il piano tutt’altro che segreto che il Che Guevara dei resort coltiva con la sua amica pasionaria Virginia (Raggi): l’Opa sui Cinquestelle. Il tempo è poco, ma se gli danno via libera sulla piattaforma SkyVote e su quel che resta dell’ala dura e pura del Movimento, potrebbe essere senza rivali.
Politica e filosofia
ALESSANDRO DI BATTISTA A DIMARTEDI
Difficile del resto contrastare il Dibba pensiero. «L’Isis nasce dalle guerre occidentali». «Dovremmo smetterla di considerare il terrorista come un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione». «Se ti bombarda un aereo telecomandato a distanza oltre alla via preferibile non violenta hai una sola strada: caricarti di esplosivo e farti saltare in aria in una metropolitana». «Meno male che c’è Putin. Riconosce il Donbass? Nulla di preoccupante».
Ma anche riflessioni filosofiche: «Adoro i mercati, mi attraggono come le donne, forse perché sono mondi con dentro altri mondi che racchiudono altri mondi». Fino alla cronaca di questi ultimi giorni, con la preoccupazione che il governo non cada davvero, perché siamo circondati «da culi flaccidi e senza etica e da facce che non si distinguono dai deretani».
Lo strappo e il voto
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Preoccupazione legittima quella di Di Battista, nel caso in cui si dovesse trovare un accordo scaccia crisi. Perché per arrivare fin qui ne ha patite davvero molte. L’esilio in America Latina, anche se passato più sulle spiagge che nelle baracche. Il confino di Ortona, in quel d’Abruzzo, anche se in un bar trattoria, a infornare pizze e poi a servirle a tavola. Il dovere della testimonianza, con i suoi libri, giustamente contrattualizzati prima di essere scritti.
Va da sé che questa lunga marcia non può essere vanificata, né c’è spazio per trattative e cooptazioni, come quando durante la nascita del Conte Due aveva accettato di fare il ministro delle Politiche europee, prima che il veto di Matteo Renzi lo ricacciasse indietro.
Niente mediazioni questa volta, perché come insegna Mao Tse-tung, «la rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, la rivoluzione è un atto di violenza». E allora non ce ne sarà per nessuno, a cominciare da Luigi Di Maio, colpevole «dell’ignobile tradimento».
«Fascista liberale»
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Non è dato sapere se in caso di conquista del potere il pensiero di Alessandro coincida con quello di un altro Di Battista, suo padre Vittorio, che dopo aver etichettato le istituzioni come una «ciurma di delinquenti», invocava: «Datemi il potere assoluto per sei mesi e risolvo tutti i problemi dell’Italia». Sappiamo però come rispondeva alla domanda: «Mio padre fascista? Sì, ma è il fascista più liberale che conosca».
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