PAOLO TOMASELLI per il Corriere della Sera
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Il silenzio di un amico prima della battaglia. José Mourinho ha preferito non parlare prima di sfidare la «sua» Inter: «Non vuole distrazioni, ma concentrarsi solo sul lavoro visto il poco tempo a disposizione» è la motivazione fornita dalla Roma. Quasi una sospensione scenografica, da attore consumato, per fare emergere l'importanza della partita e tutta l'energia che ribolle dentro le vene di Mou e della sua squadra. Perché non c'è dubbio: ammaccata e ferita, la Roma darà battaglia, anche per il suo allenatore che ritrova l'Inter per la prima volta da avversaria, undici anni e mezzo dopo la tenera notte del Bernabeu e due stagioni indimenticabili, non solo per gli interisti.
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Certo, pochi giorni prima di riabbracciare uno dei suoi più vecchi amori, il Chelsea nel 2010, Mou aveva alzato i polsi al cielo nella sfida contro la Sampdoria, incrociandoli nel gesto delle manette che gli costò tre giornate di squalifica. Poi in zona mista aveva dribblato due ali di giornalisti per chiamarne uno inglese dall'altra parte della balaustra e preparare così il terreno alla sfida degli ottavi di Champions a Stamford Bridge, da grande artista dei mind games, i giochi psicologici.
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Oggi il portoghese corre ancora sotto alla curva «come un bambino», attacca gli arbitri, consiglia a Zaniolo di andare a giocare all'estero per non essere limitato dalla ruvidezza a tutto campo di certe squadre. Però quando lo fa sembra meno rabbioso, più saggio per alcuni, bollito per altri, sempre pronti con il carrello o con il carro, a seconda di come vanno i risultati. Ma c'è un Mourinho per tutte le stagioni e quello romanista sembrava pacificato dal ritorno in Italia, autunnale quasi, nei suoi sorrisi ben spesi, nei suoi complimenti ai colleghi più giovani. Invece il fuoco c'è ancora e le medaglie al petto non hanno appesantito, almeno non del tutto, il più straordinario allenatore di uomini degli ultimi quindici anni.
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A guidare i giocatori dalla lavagna al campo probabilmente ci sono colleghi più bravi, più aggiornati, più offensivi di Mou. Non c'è mistero, né tantomeno vergogna in questo, perché il pallone corre veloce.
Ma trovare l'alchimia di un gruppo fra i vapori dello spogliatoio, farne una squadra a propria immagine e somiglianza, plasmarne il carattere prima ancora che il sistema di gioco o i principi che ne stanno alla base è un'arte senza tempo. E in questo Mourinho, modestamente, sembra ancora un maestro. Anche se non sempre, come ha spiegato lui stesso dopo il divorzio dal Tottenham, i ragazzi che oggi si trova di fronte sono disposti a imparare da lui: «Ero abituato a confrontarmi con uomini nello spogliatoio, non con bamboccioni...».
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Quella che sembra immutata è la sua capacità di respirare la stessa aria del popolo che lo accoglie: qualcosa che non si insegna, o ce l'hai o non ce l'hai. E se ce l'hai, ti può servire anche per colmare le lacune di una squadra penalizzata dalle assenze, per vincerne le timidezze, per portarla oltre la propria linea d'ombra. Riuscirci è complicato. Ma se succede, è Special. E gli amici capirebbero.
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Tommaso Labate per il Corriere della Sera
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Possibili colonne sonore per questo incontro che avviene a quattromiladuecentoquattordici giorni dall’ultima volta, tanti sono trascorsi dalla notte della finale di Champions vinta a Madrid il 22 maggio 2010, dall’abbraccio con Marco Materazzi, dalle lacrime di gioia misto dolore, dall’ultima scena, il pullman dell’Inter che sta per trasportare la squadra campione d’Europa all’aeroporto di Barajas e da lì a Milano per la festa notturna a San Siro, che parte senza il passeggero più atteso all’arrivo, che a Milano non ci sarà.
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«E tu come stai» di Claudio Baglioni, con lui che si macera in una sequenza di domanda sull’attuale vita di lei, da «chi viene a prenderti?» a «chi ti apre lo sportello?»; oppure «Ancora tu» di Lucio Battisti, «ma non dovevamo vederci più», che un servizio pre-partita di quelli iper-sentimentali che la tv generalista confezionava negli anni Ottanta e Novanta avrebbe ospitato come tappeto musicale a corredo delle belle immagini del tempo che è stato e che poi, da quella notte di quattromiladuecentoquattordici notti fa, per tanto tempo non è stato più.
Ancora qualche ora, poi José Mourinho e l’interista collettivo torneranno a incontrarsi, faccia a faccia per la prima volta. L’allenatore del Triplete e i custodi della sua ortodossia, l’incantatore e i serpenti, il grande mago e gli spettatori privilegiati di quel gigantesco spettacolo d’arte varia che è stato il biennio nerazzurro 2008-2010, iniziato col ghigno del «non sono un pirla» e conclusosi, appunto, tra le lacrime di gioia di Madrid, due scudetti, una Champions, una coppa Italia e una Supercoppa dopo.
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Roma-Inter di sabato 4 dicembre 2021, per il carico di sentimenti contrastanti che i tifosi della squadra ospite provano nei confronti dell’allenatore della squadra di casa, ma soprattutto per la misura quasi incolmabile del tempo trascorso dall’«ultima volta», non ha forse precedenti nella storia contemporanea del pallone. Come se i milanisti avessero incontrato Sacchi o Capello da avversari dopo un decennio dai successi, tanto per capirci.
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Perché forse, proprio come in «Ancora tu» di Battisti, gli interisti e Mourinho erano destinati a non incontrarsi mai più, ancorati a un ricordo da non sporcare con ragionamenti legati alla cronaca («Lo fischiamo o lo applaudiamo?»), prigionieri di un incantesimo slegato dal doveroso malaugurio sportivo che si deve all’avversario («Dobbiamo batterlo!»), perché – in fondo – schiavi di quell’ultima scena di Madrid: la Champions appena conquistata, le lacrime di gioia, gli abbracci, le lacrime di dolore, ciao, addio per sempre.
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Una contemporaneità che sopravvaluta l’amore che perdura anche durante le disgrazie, quando è forse più difficile rimanere insieme dopo una grande gioia, ha consentito a Mourinho di essere amato oltremodo, negli ultimi anni, nonostante il tradimento. Del «se n’è andato dopo averci fatto vincere», il nerazzurro medio ha tenuto nel cuore l’«averci fatto vincere» dimenticando il «se n’è andato». Fino ad Antonio Conte, tutti gli allenatori dell’Inter succedutisi sulla sua panchina hanno dovuto fare i conti con la pesante eredità di José, come se l’ex insegnante di educazione fisica di Setubal, su quella panchina, avesse lasciato la più perfida delle maledizioni.
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Allo Stadio Olimpico di Roma, sabato 4 dicembre 2021, partita Roma-Inter, quel conto si chiude. In un modo o nell’altro. Ci si dirà, a distanza, «Tu come stai» con le parole di Claudio Baglioni o «Ancora tu» con la musica di Battisti. Anche se noi, caro Mourinho, l’Interista collettivo non è più come il Noodles di C’era una volta in America ripiombato d’improvviso a New York dopo essere scappato da se stesso. Anche senza di te, non va a letto presto. O quantomeno, non più.
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