Antonio Carioti per il “Corriere della Sera”
MASSIMO FINI - IL GIORNALISMO FATTO IN PEZZI
Oltre a mostrare un indubbio talento in veste di commentatore e saggista, Massimo Fini si è esercitato a lungo come inviato di cronaca e di costume, esploratore dei cambiamenti che attraversavano la società italiana, ma anche osservatore attento di altre realtà del mondo.
Tuttavia non aveva mai raccolto in volume una rassegna di questo suo repertorio. Era tempo quindi che uscisse Il giornalismo fatto in pezzi (Marsilio), una ricca raccolta d'inchieste, interviste, reportage. Da battitore libero quale è sempre stato, Fini svaria sui più diversi argomenti.
Indaga sugli equilibri di potere interni alla Fiat - instaura anche un rapporto amichevole con Susanna Agnelli -, come sui feroci rancori che all'inizio degli anni Settanta provocano una faida sanguinosa nel piccolo comune calabrese di Guardavalle. Che ci parli di personaggi potenti e famosi o dell'ergastolano uxoricida evaso dal carcere e rintracciato per caso dopo trentadue anni, quando ormai si era rifatto una vita onesta, il lavoro di Fini è sempre da giornalista vecchia maniera, che consuma le suole delle scarpe, come si usa dire, andando sul posto, parlando faccia a faccia con la gente.
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E in effetti la sua prosa palpita di umanità vissuta. Pare di vederle le persone che descrive, al Cairo o in Giappone, nella sua Milano o nella Bari del 1978 orfana di Aldo Moro. Particolarmente interessanti sono gli articoli di costume sulla crisi della coppia e in particolare del maschio, argomento che poi riprenderà in altri libri sulle relazioni tra i sessi e sul disagio indotto dalle trasformazioni turbinose della modernità (a suo avviso nel complesso deleterie).
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Già nel 1977 Fini scrive che la coppia «aperta, paritaria, progressista» finisce in realtà per risultare «schizofrenica», perché «ha in testa, culturalmente e ideologicamente, un certo schema», però «non riesce a viverlo se non a prezzo di grandi sofferenze e mistificazioni». Spiccano, per i ritratti e gli scorci che li punteggiano, i reportage di Fini dall'estero, realizzati in genere per la «Domenica del Corriere» diretta allora da Pierluigi Magnaschi.
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Nella Mosca ancora sovietica segnala il ribollire di «una miriade di commerci privati, semilegali ed illegali», per concludere: «Il Paese che ha abolito ufficialmente il mercato è, in realtà, tutto un mercato, un enorme e vorticoso bazar». Tra l'altro dimostra una notevole lucidità nei giudizi politici, per esempio quando indica il risentimento degli arabi di cittadinanza israeliana come un problema destinato ad aggravarsi per lo Stato ebraico.
O come quando, nel 1987, suggerisce ai sudafricani bianchi di trattare al più presto con Nelson Mandela, come in effetti fortunatamente faranno, prima che sia troppo tardi e che subentri una generazione di leader neri più radicali. Il volume si chiude con due belle interviste a Pier Paolo Pasolini, un personaggio a cui l'autore si sente intellettualmente vicino e dal quale dichiara di aver mutuato molto della sua ispirazione antimoderna.
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Colpisce che il poeta già nel 1974 giudicasse ingenuo e innocuo prendersela con «un fascismo arcaico, che non esiste più e che non esisterà mai più» (quello storico di Mussolini), denunciando invece la società dei consumi come «una civiltà dittatoriale» molto più sottile e più insidiosa del passato regime. Peccato che Pasolini, di cui sta per ricorrere il centenario della nascita, non possa più farsi sentire per scuotere la banalità del dibattito pubblico. Abbiamo però Fini che a suo modo si muove su un'analoga scia. Vale la pena di leggerlo e ascoltarlo, ha il dono di far riflettere.
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