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    ARTSPIA PEOPLE - COSì PARLO' RICHARD SERRA: KOONS E HIRST? ARTISTI CONVENZIONALI. PHILIP ROTH? UN CANTORE DELLA MIDDLE CLASS, MEGLIO DE LILLO. AI WEIWEI ? UN PRODOTTO DELLA PROPAGANDA CINESE. L'ARTE ITALIANA? DEVO MOLTO SOLO A GIOTTO.


     
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    Alessandra Farkas per “la Lettura - Corriere della Sera”

    Richard Serra Richard Serra

     

    L’intervista è all’ultimo piano, non arredato, dell’ex fabbrica di Tribeca, New York, dove vive dal 1977 con la storica dell’arte (e seconda moglie) Clara Weyergraf e non più, come per l’incontro di quattro anni fa, nel luminosissimo e ben più intimo salotto due piani più giù, arredato con capolavori contemporanei e oggetti personali.

     

    Oggi, a 74 anni compiuti lo scorso 2 novembre, Richard Serra sembra più deciso che mai a sfidare le ingiurie del tempo lontano dai riflettori («La mia privacy è off limits e non vado mai a feste o vernissage» spiega a «la Lettura»), con la sola forza del proprio lavoro. La sua ultima, monumentale installazione, East-West/West-East è stata inaugurata lo scorso aprile in Qatar, a un’ora dalla capitale Doha, nella riserva naturale di Brouq. Una fila di quattro torri di acciaio massiccio, alte circa quindici metri ciascuna, fabbricate in Germania e spedite via Anversa prima di sbocciare dalla sabbia rovente del deserto mediorientale. 

    Serra : Monumenta al Grand Palais Serra : Monumenta al Grand Palais


    I critici l’hanno definita «un’apparizione nel deserto», paragonandola a «monoliti sacri» che scandiscono e modificano il paesaggio antico e primordiale fatto di vuoto e luce assoluta di una regione battuta dalle tempeste di sabbia dello Shamal che l’oro nero ha reso ricchissima. Un’istallazione che reinterpreta e reinventa lo spazio in cui sorge, come le sue altre opere pubbliche. 


    Dopo aver realizzato installazioni pionieristiche, tra l’altro, al Guggenheim di Bilbao e al Grand Palais di Parigi, affermandosi come il principale esponente del minimalismo americano (per «Vanity Fair» è tra i sei massimi artisti viventi) Serra — un ebreo — è adesso corteggiato dagli emiri del Golfo Persico.

     

    «Lavoro in Qatar dal 2009, quando I. M. Pei mi chiese di realizzare 7 per il suo Museo dell’arte islamica a Doha — precisa l’artista nato a San Francisco, che si divide tra New York e la Nuova Scozia —. E7 è la mia scultura preferita e anche la più alta: oltre 24 metri. Con la mia squadra di 15 persone tra ingegneri tedeschi e operai filippini, ho lavorato per due anni e mezzo, solo di notte usando fari e mega gru, perché di giorno la temperatura arriva a 50 gradi. Per collegare la mia torre all’adiacente museo, l’emiro ha fatto costruire una strada e un molo». 

    serra_13 serra_13


    È vero che l’anima dietro «7» è la trentunesima sorella dell’Emiro, Sheikha Al-Mayassa bint Hamad bin Khalifa Al-Thani, capo della Qatar Museums Authority, per «ArtReview» la persona più potente nel mondo dell’arte, con un budget annuo di un miliardo di dollari? 
    «È lei, laureata alla Duke University e alla Sorbona, la madrina di7 . Quando mi chiese di costruirla, ho voluto studiare i grandi minareti del passato, dalla Spagna allo Yemen, scoprendo con rammarico che sono tutti cilindrici. Tutti tranne uno, costruito nell’XI secolo a Ghazni, in Afghanistan, che è ettagonale e al quale mi sono ispirato. Già allora il matematico persiano Abu Sahl al-Quhi progettava strutture ettagonali e in lui ho trovato la continuità che mi ha permesso di integrare il mio linguaggio alla storia culturale islamica dove il numero sette ha un grande valore scientifico e spirituale». 
     

    richard serra giovane richard serra giovane

    Come è nato invece «East-West/West-East»? 
    «Anch’esso da un’idea della giovane sorella dell’emiro, che per trovare l’ubicazione perfetta nel deserto mi ha messo a disposizione un’esperta guida beduina. Alla fine l’ho trovata in una sorta di anfiteatro naturale, dove gli unici punti di riferimento, visibili anche a distanza da tutti gli scorci, sono le mie quattro sculture, che creano un perfetto asse simmetrico tra oriente e occidente. L’inaugurazione è stata uno degli eventi più gratificanti della mia vita, con tende nel deserto, musica, letture coraniche e 200 ospiti che hanno percorso a piedi l’intero chilometro dell’istallazione, sotto il sole». 
     

    La sua prima esposizione individuale fu a Roma nel 1966. Da allora ha ricevuto altri inviti per lavorare in Italia? 
    «In Italia comandano città e regioni e l’invito dovrebbe venire dai poteri locali, non centrali. Nel 1966 ero un esordiente e Roma fu il mio trampolino di lancio quando tornai a casa. Lì trovai Leo Castelli, un altro italiano che credette in me, diventando il mio gallerista. Era un genio, il dealer più importante del secolo». 
     

    Lei resta scettico nei confronti dell’arte digitale. 
    «La realtà virtuale è fatta dei nostri ricordi e quindi invade per forza l’arte. Le mie opere vogliono respingere quest’intersezione tra virtuale e reale ed esistono nel presente, nell’attimo e nel luogo in cui ne fruisci. Non celebrano il passato o il futuro e quindi sono antitetiche alla realtà virtuale che non ha tempo, spazio o materia». 
     

    Serra :monumento in Nuova Zelanda Serra :monumento in Nuova Zelanda

    Soffre ancora quando ripensa alla rottamazione di «Tilted Arc», la sua grande scultura in acciaio rimossa da Federal Plaza a New York nel 1989 otto anni dopo l’inaugurazione? 
    «Accadde sotto Ronald Reagan e potrebbe succedere ancora, se alla Casa Bianca sedesse un presidente repubblicano. Non era mai successo, ma allora cambiarono la legge per includere una clausola che consente al governo federale di distruggere qualsiasi opera che commissiona. Fui il loro capro espiatorio; non lavorerò mai più per lo Stato». 
     

    L’arte appartiene agli spazi pubblici o è destinata a tornare sul piedistallo? 
    «La Chitarra di Picasso , un’opera tra dipinto e scultura, ha iniziato un processo inarrestabile continuato dai russi Vladimir Tatlin, Kazimir Malevic e El Lissitzly che hanno visto in quel quadro l’apertura dello spazio e la possibilità per il pubblico di interagire con l’arte. Da qui è nato il concetto di arte che entra a far parte di uno spazio pubblico e crea un tutt’uno con l’ambiente e lo spettatore, la cui esperienza individuale è l’unica vera protagonista». 
     

    opera di Richard-Serra opera di Richard-Serra

    Questa concezione deve fare i conti con un mercato dell’arte fuori controllo che ha bisogno di vendere... 
    «Per questo esistono ancora i piedistalli. Il postmodernismo applaude gli artisti che “copincollano” con un criterio che un tempo veniva chiamato plagio. Oggi i mercanti d’arte vendono le opere con un jpeg, una fotografia, senza doverle mostrare dal vero. Il consumismo culturale globale ha permesso all’arte di retrocedere, rifugiandosi in antiquate convenzioni: dai busti di bronzo ai nudi dal vero. Ogni generazione ha ciò che merita. Non è colpa delle gallerie o degli artisti ma dell’intero sistema, anche se basterebbe un pugno di visionari per cambiarlo». 
     

    Anche l’astrazione sta tornando alla grande... 
    «Il postmodernismo ha riesumato tutti i vecchi movimenti, inducendoci a una sorta di amnesia, facendoci applaudire stili che fingiamo di aver dimenticato. Gli artisti tornano al passato per compiacere la classe incolta degli acquirenti — gli hedge fund — che compra attraverso consulenti avversi al rischio quanto le gallerie e le case d’asta. Essi rappresentano, uniti, le forze della conservazione: l’anatema dell’arte e dei giovani». 
     

    Che consiglio darebbe a uno scultore alle prime armi? 
    «Invece di copiare il lavoro altrui segui il tuo cuore e la tua musa, anche se impopolari. Non importa che materiali usi o la dimensione delle tue opere. L’importante è essere onesto con te stesso». 
     

    Che cosa pensa della generazione dei Koons e degli Hirst? 
    «Non m’interessa la loro arte figurativa, né mettere opere convenzionali dietro vetrine e su piedistalli. Tra i giovani mi intriga molto Sarah Sze, che rappresentò gli Usa alla Biennale di Venezia del 2013. È una giovane innovativa da tenere d’occhio». 
     

    East-West/West-Eas. richard Serra East-West/West-Eas. richard Serra

    La Biennale di Venezia è una rassegna ancora rilevante? 
    «Per i giovani è importantissima, il posto migliore per avere una panoramica completa dei nuovi idiomi artistici che stanno evolvendosi nel mondo. Per rompere con la tua generazione devi prima conoscerne linguaggi e contenuti». 
     

    Esiste un rapporto tra scultura e letteratura? 
    «Io mi sono laureato in letteratura e ho fatto i primi passi come scultore dopo aver letto Camus e Sartre che mi ha insegnato come ogni uomo è il prodotto delle proprie scelte. I trascendentalisti — Nathaniel Hawthorne, Herman Melville e Walt Whitman — hanno segnato la mia sensibilità almeno quanto Giacometti e Pollock, dal cui processo creativo ho imparato che nell’arte il “come” conta quanto il “cosa”. Purtroppo oggi è vero il contrario». 
     

    Quali autori e artisti contemporanei ama di più? 
    «Preferisco DeLillo a Philip Roth, un Woody Allen serioso, cantore di una middle class che non mi interessa. Amo il poeta portoghese Fernando Pessoa, il talentuosissimo Jasper Johns e Christo: un artista coraggioso che come me non dipende dal mercato dell’arte». 
     

    Richard Serra East-West/West-East Richard Serra East-West/West-East

    E tra i grandi del passato? 
    «Devo molto a Giotto e soprattutto a Donatello, che giudico non abbastanza apprezzato dagli italiani. Amo Mantegna e ho appena acquistato un de Chirico del periodo metafisico. Ma non andrò a vedere la mostra sul Futurismo al Guggenheim perché è una corrente che non mi piace né mi interessa». 
     

    Ha visto quella di Ai Weiwei al Brooklyn Museum? 
    «No. Weiwei, eroe in occidente, è una pedina culturale del regime cinese. Consentendogli di denunciare l’ideologia comunista, lo stanno usando come prodotto internazionale d’esportazione e ciò li fa apparire progressisti e aperti alla critica interna, anche se poi lo incarcerano. L’esatto contrario di quanto il mondo crede, insomma. Lui è in buona fede ma Pechino lo usa per farsi propaganda a sua insaputa». 
     

    È un buon momento per l’arte internazionale? 
    «La salute di una cultura si vede dalla libertà di espressione dei suoi artisti. Se dalla Russia continua a uscire solo realismo sociale significa che il regime è ancora repressivo. Sono convinto che il futuro appartiene ai Paesi emergenti, all’India, all’America latina, all’Africa e al Medio Oriente, perché l’arte nasce sempre dal risentimento dei giovani delle classi medio-basse verso lo status quo». 
     

    L’Italia è troppo vecchia per tornare a contare? 
    «Il problema degli italiani è avere troppa storia davanti agli occhi con cui fare i conti tutti i giorni. Oggi l’America ha lo stesso problema, dopo due o tre generazioni di artisti affermati che hanno creato il mito accademico del brand made in Usa da preservare». 

     

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