Piero Negri per “la Stampa”
Bob Dylan
Certo, un po’ stupisce che un ammiraglio, l’attuale capo di stato maggiore della Difesa, consigli Bob Dylan agli ufficiali della Scuola d’applicazione di Torino, l’università degli uomini e delle donne in divisa. Ma Luigi Binelli Mantelli nell’immenso repertorio del cantautore che inventò i cantautori ha scelto bene: Forever Young, che Dylan pubblicò nel 1974, fu scritta due anni prima pensando a suo figlio Jakob e fu quasi esclusa dall’album Planet Waves perché al suo autore sembrava «un po’ troppo sentimentale».
«Possa tu crescere per essere giusto, possa tu crescere per essere sincero. Possa tu conoscere sempre la verità e vedere le luci che ti circondano. Possa tu essere sempre coraggioso, stare eretto e forte. E possa tu restare per sempre giovane»: a rileggerle oggi, quarant’anni dopo, le parole del Poeta sembrano a dire il vero ben poco sentimentali, e si capisce perché continuino a parlare alle generazioni.
«È un appello a un modo di vivere che non conosce confini né barriere ideologiche», ha commentato l'ammiraglio e a qualcuno è venuto in mente il discorso che Steve Jobs tenne ai laureandi dell’Università di Stanford in California nel 2005, quello che si conclude con «Stay hungry, stay foolish», siate sempre affamati e folli. Jobs quel giorno non citò direttamente Dylan, che peraltro aveva studiato a lungo da ragazzo.
Bob Dylan
Anzi, lui e Steve Wozniak, i fondatori della Apple, divennero amici proprio perché entrambi erano fanatici ascoltatori di Dylan: «Abbiamo acquistato i libri con i suoi testi - ha raccontato Wozniak - e insieme abbiamo passato notti intere svegli a interpretarli. Erano parole che toccavano le corde del pensiero creativo».
Pensiero creativo: evidentemente anche i militari oggi devono essere creativi, e questo è evidente. Ma Dylan non era il profeta dell’anti-militarismo? Risponde Alessandro Carrera, docente di Studi italiani a Houston, autore di un libro fondamentale su Dylan («La voce di Bob Dylan - Una spiegazione dell’America») e del recentemente riedito «Musica e pubblico giovanile»:
«Dylan è molto trasversale, i tempi sono cambiati e il suo pubblico è colto e tocca tutti i livelli della società. Pacifista vero, poi, non lo è mai stato, l’ha chiarito lui stesso più volte. Masters of War, spesso citata in questo senso, ha parole durissime, anche molto aggressive, tanto che molti, Joan Baez compresa, la strofa finale si sono rifiutati di cantarla. “E io spero che voi moriate, e che moriate in fretta”, augura a chi lucra sulla guerra. Tra l’altro mi pare che anche un ufficiale dell’esercito possa essere d’accordo».
2. LE SUE CANZONI D’AMORE FANNO DISCUTERE I GIURISTI QUEI TESTI SEMPRE PIÙ SPESSO CITATI NELLE SENTENZE
Armando Spataro* per “la Stampa”
JOE ALPER Bob Dylan Joan Baez JA x
Non mi ritengo un esperto di Dylan: ce ne sono già tanti in giro per il mondo e non tutti lo sono davvero. Né sono uno storico della sua vita e delle sue avventure. Più semplicemente, sono un appassionato e acritico amante delle sue canzoni, di cui crede di percepire il significato profondo, importante anche per chi vive nel mondo della giustizia.
Forse è per questo che molti giuristi discutono attorno alle sue parole: rammento due convegni del 2011, uno alla Cattolica di Milano e uno alla Fordham University di New York, e ho letto citazioni da Like a Rolling Stone in una sentenza del 2008 della Corte Suprema e da Subterraneam Homesick Blues nella sentenza di una corte della California in cui, per affermare che il perito non serve per convalidare l’ovvio, si affermava: «You don’t need a weatherman to know which way the wind blows» (Non hai bisogno di un meteorologo per sapere in che direzione soffia il vento). Noi citiamo «solo» la Cassazione.
BOB DYLAN E JOAN BAEZ ALL AEROPORTO DI NEWARK
Il professor Forti così spiegava le ragioni della sua iniziativa alla Cattolica: «Sono i testi che devono essere studiati e che devono parlare. Essi fanno venire alla luce i fermenti elettivi». È affascinante allora provare ad analizzare e studiare i testi di Dylan per tentare di leggere la giustizia attraverso le parole e l’anima di un visionario di incredibile spessore, il cui spirito e la cui mente non possono essere classificati.
Dunque, un metodo di lettura che richiede all’interprete un correttivo addizionale, non di marginale rilievo: quello di saper usare anche la propria anima. In realtà, più che di giustizia, bisognerebbe parlare dell’ingiustizia nei testi di Bob Dylan.
Dylan normalmente parla male di giudici e descrive soprattutto i privilegi dei potenti impuniti e le ingiustizie subite dai deboli e dai disperati. Ma alla fine sembra chiaro – con tutti i rischi in cui incorre chi voglia provare a darne un’interpretazione autentica – che Dylan canta l’ingiustizia per amore della giustizia, magari fornendo conferma ad alcuni (spero non a molti) che nella mente di qualche magistrato si aggira il seme della follia.
Occorre fare attenzione, però: usare ragione, grammatica e vocabolario per tentare di capire Dylan può essere un errore. Dovremmo farlo solo attraverso le emozioni che la musica, i testi e la sua strana e unica voce generano in noi.
Dobbiamo essere visionari come lui, insomma, ed essere capaci di trovare riferimenti alla giustizia ascoltando una canzone d’amore. Non è forse vero che anche le sofferenze patite per amore possono essere pene giuste o ingiuste e rappresentare, a seconda dei casi, strumento di espiazione e recupero?
joan baez
Vocabolario alla mano, dovremmo concludere che le canzoni di Bob parlano di giudici che non sono fulgidi esempi di attaccamento al dovere. Anzi, appaiono spesso corrotti, ebbri di quello stesso potere che ossequiano, perfino cinici. Nella migliore delle ipotesi, sono un po’ tonti e in questo Dylan non fa differenza tra giudici e pubblici ministeri: non conosce la separazione delle carriere e si riferisce alla giustizia nel suo insieme.
Rammento un solo pezzo (Drifter Escape, 1967) in cui compare un giudice pietoso e sensibile: di fronte a un imputato disperato, scende dallo scranno, si leva la toga e scoppia in lacrime, mentre un fulmine si abbatte sul palazzo e l’imputato fugge. Come se la giustizia umana non fosse possibile ed esistesse solo quella divina.
È il messaggio che sembrano lanciare tanti suoi testi sull’umanità sofferente, sulla disperazione degli immigrati (Talking New York o Poor Boy Blues), dei discriminati per razza (Train A-Travelin’) e nelle scuole (Oxford Town), dei poveri (Ballad of Hollis Brown). Ma Dylan sa parlare anche di guerre di mafia (Maybe Someday eJoey), di vittime di processi ingiusti (The Lonesome Death of Hattie Carrol e la famosa Hurricane, che contribuì alla liberazione del pugile Rubin Carter condannato per omicidio) e di quella parte del potere politico che vuole la sconfitta degli altri e l’impunità per sé (Political World).
Armando Spataro
È Billy the Kid, però, colonna sonora più famosa del film cui era dedicata, la parabola su ogni vita possibile, in cui chiunque può trovare un significato originale. Ma a nessuno Dylan direbbe qual era il senso vero dei suoi brani, anzi negherebbe che ve ne sia uno. Come Magritte con le sue immagini.
In un pezzo molto conosciuto (Absolutely Sweet Mary, 1966), poi, compare una frase sibillina: «Per vivere fuori dalla legge bisogna essere onesti». Secondo alcuni un’esaltazione del codice d’onore dei malviventi, ma forse, più correttamente, solo un’amara constatazione: le regole sembrano rispettate più dai disperati e dai fuorilegge che da coloro che normalmente definiamo onesti.
Come l’ammiraglio Binelli, anch’io mi permetto di citare Dylan per invitare tutti a riflessioni, ovvie e trascurate: «E un uomo quante volte può voltarsi e far finta di non avere visto?» (
Blowin’ In The Wind, 1962). E a quanti preferiscono il comodo quietismo per sé anziché l’impegno per tutti domando: «Cosa mai ci vuole per trovare dignità?» (Dignity, 1994).
* Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Torino