Giancarlo Dotto per il “Corriere dello Sport”
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Ave Mou! Questa volta non è un benvenuto o un auspicio, ma una presa d’atto: da ieri pomeriggio qualunque ecografia del torace di Josè svelerà macchie per nulla allarmanti di giallo e di rosso.
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Una specie di rito battesimale che si consuma inatteso nel più grande e rumoroso studio dentistico d’Italia, uno stadio, al cospetto di una squadra che ti buca, ti trapana e ti squarta con una aggressività innaturale, senza anestesia preventiva, ma ieri ridotta da Mourinho e la sua banda a una malinconica versione da bruma invernale del “troppo rumore per nulla”.
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Da ieri, Josè romanista dentro, solo a vederlo come si presenta all’intervista del dopo partita. Disfatto nella voce e nella maschera, tempestato di lupi e lupe addosso, tra maglia e tuta, denti affilati e generose mammelle. Lupus in fabula? La favola può ufficialmente iniziare.
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Sembrava, sì, Josè, uscito esausto da una drammatica seduta dal dentista, in cui però a cadere erano stati solo molari e pensieri guasti, non il resto della dentiera sana, come capita quando c’è di mezzo la feroce attitudine di Mister Toloi, Herr Freuler e compagni. Proibito ora lasciarsi andare a facili sentenze, slacciare le solite euforie invereconde. Proibito e grottesco parlare di “svolta”.
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Se il calcio è bello, quando è bello, è perché qualcosa accade dentro un romanzo di novanta minuti in cui giocano troppe variabili. Non sappiamo che Roma sarà da qui a quattro giorni. Sappiamo però, alla fine di un match di selvaggia bellezza, che Mourinho ha definitivamente scoperto anche a se stesso la Roma che germina nella sua testa. La Roma che vuole. Un gruppo compatto, solidale, in missione permanente, illuminato dalla qualità dei pochi che, si spera, diventeranno tanti.
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Non ci libereremo facilmente del tedioso ritornello appeso al microfono di turno: che risultato è giusto aspettarsi da Mourinho e dalla sua Roma? La verità è che Mou ha già ottenuto due risultati di calcolabile valore: ha riportato passione e identificazione nella gente romanista, l’essenza stessa del tifo. Ha costruito un gruppo che, sbandamenti di crescita a parte, mostra dedizione e applicazione nei suoi giocatori più importanti.
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A cominciare da Smalling (ieri imperiale per novanta minuti) e Miki di cui si vociava la difettosa empatia con il guru di Setubal. Commoventi oltre che travolgenti gli assalti furiosi di Veretout, nazionale francese, per non parlare di Karsdorp, a cui la stampa romana sottrae puntigliosamente mezzo voto a ogni partita. Ha tirato dalla sua in modo definitivo leader di campo e di spogliatoio come Mancini e Cristante, ha fatto di Ibanez un crociato e, su tutti, Abraham e Zaniolo.
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Tammy non ha fatto in tempo a rivolgergli la domanda: “Dove cavolo mi hai trascinato mister, in quale mischia fangosa, io che venivo da prati araldici?”, che Josè l’aveva già fatto innamorare del fango.
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E Nicolò. Per chiudere e per aprire. Gol a parte, un ventaglio di prodigi tecnici in pochi secondi, abbiamo visto e speriamo di vederlo da qui all’infinito il ragazzo che sarà capace di non sprecare il suo talento con isteriche uscite di senno.
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Avevamo invocato lo Zaniolo capace di sposare il talento alla lucidità e all’efferatezza. Ieri, i tifosi hanno cominciato a vedere e a presagire. Il presentimento del godimento.
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