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    AVVELENATO O DISOCCUPATO? IL LAVORO O LA VITA? SCEGLI IL TUO FUTURO! - LA MAGISTRATURA “CHIUDE” L’ILVA E L’ITALIA “PAGA” UN CONTO DI 8 MILIARDI DI EURO: NON SOLO 5MILA OPERAI A SPASSO, A RISCHIO ANCHE GLI ALTRI STABILIMENTI E INDOTTO PER UN TOTTALE DI 20MILA POSTI - LA PROPRIETA’ “SCARICA” SUI LAVORATORI DECENNI DI VIOLAZIONI AMBIENTALI - LA PALLA A RIGOR MONTIS: DECRETO ANTI-GIUDICI IN ARRIVO?....


     
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    1 - EFFETTO DOMINO, A RISCHIO VENTIMILA POSTI...
    Enrico Marro per il "Corriere della Sera"

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    Se chiude l'Ilva di Taranto, scompare l'ultimo grande impianto in Italia per la produzione di acciaio a ciclo integrale, dall'altoforno ai laminati, ai tubi. Per il gruppo Riva, quarto in Europa nella siderurgia, sarebbe un colpo durissimo.

    Per l'economia italiana un danno a catena, che colpirebbe, innanzitutto gli altri stabilimenti del gruppo (Novi Ligure, Racconigi, Marghera e Patrica), quindi l'indotto (oltre ai 12 mila dipendenti diretti, ce ne sono tra i 5 e i 7 mila che vivono dei servizi che ruotano intorno al megastabilimento, il più grande d'Europa, e i clienti, che vanno dal distretto metalmeccanico di Brescia all'industria degli elettrodomestici, dai cantieri navali al settore dell'auto, dall'edilizia al comparto dell'energia.

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    Tanto che Federacciai-Confindustria ha quantificato in una cifra oscillante tra 5,7 miliardi e 8,2 miliardi di euro le ripercussioni negative sull'economia nazionale. Cioè qualcosa che può valere mezzo punto del prodotto interno lordo.

    L'acciaio serve per fare viti, chiodi, bulloni e chiavi, dei quali l'Italia è grande produttrice. Ma anche per costruire navi, altro settore nel quale, nel segmento crociere, primeggiamo nel mondo, piattaforme offshore, caldaie e impianti industriali. Le lamiere d'acciaio danno forma alle lavatrici, alle automobili e ai treni, che oltretutto corrono sui binari. Gasdotti e oleodotti necessitano dei grandi tubi che escono dagli stabilimenti siderurgici.

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    Le costruzioni e le ristrutturazioni vivono sull'acciaio: dai ponteggi esterni sui quali si muovono gli operai ai tondini per il cemento armato alle travi che sorreggono strutture e ponti. Le macchine industriali, altra leadership italiana nel mondo, non si muovono senza alberi di trasmissione e altri componenti in acciaio.

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    Taranto ha prodotto l'anno scorso circa 8 milioni di tonnellate di nastri e lamiere d'acciaio, ma negli anni che l'economia tirava ne ha sfornati anche 9-10 milioni, pari a più del 40% della produzione nazionale. Degli 8 milioni di tonnellate circa 5 sono andati a rifornire il mercato nazionale, da colossi come Fiat e Fincantieri alle piccole imprese dei distretti metalmeccanici.

    Tre milioni di tonnellate, invece, sono state esportate, la gran parte, 2,5 milioni, in Europa, dove la Germania è prontissima a prendere il nostro posto, e mezzo milione nel resto del mondo, dove la concorrenza cinese è sempre più agguerrita.
    Se l'Italia dovesse importare i 5 milioni di tonnellate di acciaio che ora prende da Taranto, stima Federacciai, l'esborso verso l'estero oscillerebbe tra 2,5 miliardi e 3,5 miliardi, dipende dalle condizioni di prezzo e dalla congiuntura. Stessa cosa vale per le esportazioni, dove si perderebbero tra 1,2 e 2 miliardi di euro. Il danno per la bilancia commerciale andrebbe da un minimo di 3,7 miliardi a un massimo di 5,5 miliardi.

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    A questi si devono aggiungere fra 750 milioni e 1,5 miliardi che gli attuali clienti dell'Ilva dovrebbero sopportare di maggiori costi per la logistica e gli oneri finanziari. Un altro miliardo andrebbe considerato per gli ammortizzatori sociali e 250 milioni per il calo dei consumi conseguente al tracollo dei redditi in tutta l'area di Taranto. Totale, appunto: minimo 5,7 miliardi, massimo 8,2 miliardi.

    Secondo Rocco Palombella, segretario della Uilm, che all'Ilva di Taranto fu assunto nel lontano 1973, questi calcoli, oltretutto, non tengono conto del dramma sociale che si aprirebbe, «anche perché l'età media dei dipendenti è intorno ai 35 anni» e quindi non c'è ammortizzatore sociale che possa bastare. Dovrebbero trovare un altro lavoro. «Ma quale in quella zona?», si chiede il sindacalista.

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    2 - L'ILVA CHIUDE, OPERAI A CASA RAPPRESAGLIA CONTRO I PM...
    Giorgio Meletti per il "Fatto quotidiano"

    La guerra totale sull'Ilva di Taranto ha raggiunto ieri il punto di massima intensità. Magistratura contro azienda, governo contro magistratura, sindacati in parte contro il governo e in parte contro la magistratura. Ieri il colpo più duro l'ha sferrato l'azienda, chiudendo per rappresaglia tutta l'area a freddo e mettendo così in libertà 5 mila degli 11 mila dipendenti. "La catastrofe è arrivata", ha commentato con acida sintesi il leader della Uil Luigi Angeletti. E adesso a Palazzo Chigi si studia la strada di un decreto legge per limitare gli effetti dell'azione della Procura della Repubblica di Taranto.

    Ieri mattina i magistrati hanno fatto eseguire sette nuovi provvedimenti di custodia cautelare contro la famiglia proprietaria, i Riva, alcuni manager chiave e politici locali. In più hanno sequestrato prodotti finiti e semilavorati di acciaio perché realizzati in violazione delle prescrizioni del sequestro dell'area a caldo dello stabilimento siderurgico, deciso nel luglio scorso, che non prevedeva la facoltà d'uso a fini produttivi degli impianti stessi.

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    Immediata la reazione dell'azienda, che ha comunicato ai sindacati la chiusura dell'area a freddo, mettendo in libertà 5 mila operai: a casa, senza preavviso, e senza salario, già da ieri pomeriggio. L'acciaio prodotto dagli altiforni (area a caldo) viene lavorato dai laminatoi dell'area a freddo, e poi avviato in parte ad altri stabilimenti del gruppo. Il sequestro del prodotto pronto alla consegna avvenuto ieri comporta per l'Ilva "l'impossibilità di commercializzare i prodotti e, per conseguenza, la cessazione di ogni attività".

    Secondo il segretario nazionale della Fim-Cisl, Marco Bentivogli, la decisione riguarderà in modo quasi automatico gli stabilimenti Ilva di Genova, Novi Ligure, Racconigi, Marghera e Patrica. Già ieri pomeriggio l'azienda ha messo in libertà gli operai che dovevano entrare in turno alle 17, che si sono però quasi tutti rifiutati di andare a casa, riunendosi in assemblea. L'azienda ha reagito bloccando i badge, per evitare altri ingressi di operai in fabbrica. Gli operai, compatti, hanno dichiarato lo sciopero immediato.

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    Per il governo è una bomba sociale molto difficile da gestire. Si rischia di avere già da oggi a Taranto qualche forma di rivolta sociale indirizzata verso il palazzo di Giustizia, laddove passasse l'idea che i 5 mila operai sono stati mandati a casa come effetto dell'oltranzismo giudiziario.

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    La prima reazione, per bocca del ministro dell'Ambiente Corrado Clini, sembra andare proprio in direzione di uno scontro istituzionale con la magistratura. Ricordando che è stata appena firmata l'Aia (Autorizzazione integrata ambientale) che consente il funzionamento della maggiore acciaieria d'Europa imponendo una serie di interventi per ridurre l'impatto inquinante e avviare la bonifica dell'area, Clini ha attaccato la procura di Taranto: ''Non sono disponibile a subire una situazione che avrebbe effetti terribili: sono preoccupato che questa iniziativa blocchi l'Autorizzazione integrata ambientale con effetti ambientali gravissimi e sociali devastanti".

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    Poi ha evocato l'ipotesi di un decreto legge che consenta all'Ilva di andare avanti neutralizzando gli effetti dell'inchiesta penale: "Vogliamo sapere se in queste condizioni nuove è possibile per l'Ilva realizzare gli interventi e gli investimenti necessari per rispettare l'Aia o no. In caso di no dobbiamo prendere provvedimenti per far rispettare la legge". I sindacati chiedono al premier Mario Monti di fare qualcosa.

    Ieri sera è arrivata una convocazione per dopodomani, giovedì, a palazzo Chigi, per azienda, sindacati e enti locali. Ma la partita è resa più complicata dal timore che le cose siano andate troppo avanti, e che al vertice dell'Ilva cominci a farsi strada l'idea di gettare la spugna e chiudere lo stabilimento. Un'ipotesi del genere spaventa il governo, che non avrebbe alcuno strumento per costringere l'86enne Emilio Riva a tenere in vita l'azienda.

     

     

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