Alessandra Mammì per artribune.com
paolo baratta
Uno degli aspetti che più colpiscono nella lettura delle 480 pagine de Il Giardino e l’Arsenale, memoir di Paolo Baratta (Milano, 1939) sulla storia della Biennale in genere e della sua Biennale soprattutto (che viene presentato al MAXXI il 10 novembre 2021), è il rapporto con Harald Szeemann.
Forse il vero protagonista di questo lungo diario, quasi un mentore che Baratta incontra all’inizio del suo primo mandato nel 1998 e noi invece a pagina 147, subito dopo una lunga ricostruzione storica dell’istituzione, meticolosa ma naturalmente più asettica. Invece, con l’arrivo di Szeemann, il tono del racconto cambia.
Baratta parte dal viaggio in Canton Ticino che intraprende per andare a conoscere il suo futuro curatore (evidentemente il grande exhibition maker non si faceva convocare neanche dal presidente). Descrive le valli, la natura e la fabbrica dove Harald lavorava tra “accumuli di ritagli stampa, carte, cataloghi, saggi, volumi e documenti…”.
Paolo Baratta-–-Il-Giardino-e-lArsenale-Marsilio-Editori-Venezia-2021
Ne fa un ritratto: “Parlava bene italiano, con cadenza e ritmo a volte più lenti come a soppesare le sillabe… accompagnava la voce con qualche smorfia… la barba gli dava un piglio da montanaro…”. Non nasconde l’entusiasmo per il personaggio, “un incrocio tra uno sciamano e un artista… ero dinanzi a uno straordinario professionista”. Ma soprattutto appare evidente come le parole chiave che emergono da quel primo confronto diventeranno per Baratta una sorta di viatico che si declina poi nel mestiere di presidente di un ente culturale in decadenza che andava interamente ricostruito.
Un lavoro più complesso di quello di un curatore, ma bisognoso di trovare appoggio in un’ispirazione più profonda di quella manageriale. Dunque Baratta scrive come già nel loro primo, lungo dialogo, dalla voce di Szeemann, emergano continuamente le espressioni: “aperto“; “ampliamento“; “dilatazione”; “vecchie abitudini“; “troppi aventi diritto“. E soprattutto l’idea di “mettere insieme i settori“. Harald, racconta Baratta, metteva al primo punto l’abolizione della divisione delle arti e al secondo il benessere del curatore: tempo a disposizione e denaro per una vita dedicata.
Harald Szeemann
La prima applicazione di questi principi arriva proprio dalla Mostra del 1999. Qui il concetto di “aperto” è già nel titolo, dAPERtutto; l’”ampliamento” gli permetterà di usare per la prima volta l’Arsenale; le “vecchie abitudini” verranno spazzate via dalla sua rivoluzione, compresa quella di abolire il padiglione italiano e con questo anche i troppi “aventi diritto”.
“Se non c’è arte italiana che corrisponde a una visione di qualità si rinuncia a mostrare questi artisti e anche quelli più anziani. La presentazione dei veterani dell’Arte Povera lo scorso anno era un po’ funeralistica e questo non contribuisce alla reputazione della Biennale”, Szeemann dixit. All’abolizione del padiglione italiano seguì una vera insurrezione. La prima, ma non l’ultima, delle molte che Baratta provocherà nel corso dei suoi pluri-mandati. E fa pendant con quella solo apparentemente più futile che sollevò gli animi cinefili quando poco dopo il presidente impose “cravatta nera” per le première in Sala Grande alla Mostra del Cinema.
paolo baratta foto di bacco
Non fu solo un problema di dress-code, fu il segno che quel clima pauperistico da vecchio cinéphile in ciabatte che vagava per il Lido rincorrendo film di nicchia con Baratta lasciava il posto a un festival che voleva sfidare la grandeur di Cannes ed evocare i fasti del conte Volpi. Insomma, via le vecchie abitudini e con loro i critici che le sostengono. Ed ecco che il direttore in carica Felice Laudadio viene fulminato anche per una inclinazione troppo romano-centrica e per un errore di valutazione gravissimo quando, lamentando carenze organizzative e tecniche della Mostra, in conferenza stampa suggerisce che il festival venga gestito da Cinecittà essendo la Biennale più adatta all’arte che alla cinematografia.
Non aveva fatto i conti con la visione Baratta e le parole chiave di Szeemann che germogliavano nel cuore del neo presidente e finì i suoi giorni nella sezione “vecchie abitudini”. Altro che lasciare ai romani il cinema, Baratta aveva tutt’altra idea. Vedeva la sua Biennale come un’opera d’arte totale, l’unica manifestazione internazionale in grado di abbracciare ogni disciplina.
BERLUSCONI BONDI
Così come l’aveva immaginata Szeemann: “Una nuova Gestalt data tra la collaborazione tra i settori che avrebbe portato la Biennale oltre Documenta”. “Vale la pena” gli aveva detto lo svizzero. “Il momento è arrivato, Documenta ha perso molto del suo ruolo di indicatore”. E “con il suo italiano appena incerto e una calligrafia precisissima mi mandava questo messaggio di entusiasmo per un programma grandioso”, commenta Baratta.
barbera baratta
Il programma grandioso in questo lungo diario dalla burrascosa conclusione del primo mandato (2002), dovuto anche al cambio di governo, viene ripreso però nel 2007 quando di mandati Baratta ne ottiene altri tre. Sono gli anni della costruzione di un sogno, quello di fare delle tante e diverse mostre un’unica grande cosa e incidere la parola Biennale non solo nel frontespizio del Padiglione centrale, cancellando il vecchio “Italia” di memoria fascista, ma nella mente di chiunque si occupi di cultura e arti visive in ogni parte del pianeta. Nella mente di Baratta, poi, La Biennale tout court doveva essere solo quella veneziana, mentre le altre (da Berlino a San Paolo, da Istanbul a Lione) che si moltiplicavano nel mondo avrebbero avuto bisogno di aggiungere l’indirizzo.
paolo baratta laura delli colli gemma bracco foto di bacco
Dunque in questo complesso percorso e lungo racconto de Il Giardino e l’Arsenale, che abbraccia innovazioni nell’architettura, nella danza, nel teatro e nella didattica, negli archivi e nella logistica; che tratta di media e discute con poteri nazionali, internazionali e locali, che fa lo slalom tra problemi organizzativi e dispute culturali, le parole chiave dell’inizio non vengono mai tradite.
Resta al lettore l’interrogativo sul perché non ci fu empatia con Marco Müller, il direttore del cinema che più si avvicinava a questo progetto. La sua sezione Orizzonti, pensata come una super-maratona di ricerca sulle immagini in movimento, mostrò sul grande schermo lavori di Rikrit Tiravanija e Matthew Barney, gli esordi di Zapruder e Yuri Ancarani, il film western di Piotr Uklanski e molti altri esperimenti sulla fluidità delle arti. Müller non aprì la mostra del cinema solo ai cinesi (come sbrigativamente lo liquida Baratta), ma al mondo e ai mondi (compreso il cinema di genere battezzato dalla presenza di Tarantino) nella stessa simmetrica direzione che indicò a suo tempo proprio Szeemann.
BONDI URLA NEL GIORNO DELLA FIDUCIA A LETTA FOTO LAPRESSE
A lui Baratta preferisce Alberto Barbera, l’altro protagonista di questo diario, che il presidente indica come primo tra i collaboratori per aver portato il festival a una visibilità hollywoodiana con molti film che poi hanno vinto l’Oscar e un tappeto rosso pieno di super star. Barbera ha avuto ottimi risultati, ma di certo nel suo progetto l’arte e le arti sono praticamente scomparse.
paolo baratta
Una ulteriore ragione per scrutare questa storia è il capitolo dedicato ai rapporti con la politica. Perché il motivo profondo per essere grati a Baratta è l’avere ottenuto e sempre difeso la riforma del 1998 che dava autonomia alla Biennale e finalmente poneva quella “arm’s lenght” (la distanza di un braccio) dal potere politico necessaria a tutte le istituzioni culturali. E non fu facile mantenere intatta la frontiera.
Meritano dunque attenzione e riflessione quelle pagine che raccontano del suo scontro con Vittorio Sgarbi sottosegretario che prometteva incarichi a destra e manca senza averne il diritto; i ripetuti tentativi di restituire al potere politico le nomine dei direttori; le accuse da parte della destra di antiamericanismo nel cinema e avanguardismo di sinistra nell’arte; il disprezzo di Berlusconi che da Presidente del Consiglio non mise mai piede alla Biennale.
SGARBI
Ma soprattutto è imperdibile il ricordo di Sandro Bondi, ministro della cultura che Baratta riporta come l’incontro con un extraterrestre. “Fedelissimo di Berlusconi”, scrive, “convinto che con lui nascesse una nuova era, mi pareva molto impegnato a propugnare l’idea che occorresse affrancare la cultura dal dominio della sinistra… Insomma mi sembrava che interpretasse il suo ruolo di un eroe di un dramma ‘à sauvetage’: un Fidelio della destra politica”.
paolo baratta dario franceschini
Il culmine della salvifica missione bondiana giunge con un’intervista a Panorama del settembre 2010 in cui il ministro, non contento dei risultati della premiazione guidata da Tarantino, che ancora una volta non aveva scelto nessun film italiano, promette che avrebbe “d’ora in poi messo becco nei lavori della giuria”. Non accadde. Si dimise prima.
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Paolo Baratta invece ha concluso il suo mandato dopo molte riconferme. Ci ha lasciato una Biennale rinnovata nel prestigio, uno statuto forte, un succedersi di mostre importanti (alcune epocali) e questo libro pieno di storie che vale la pena di leggere, di ritratti, di aneddoti, testimonianze e alcune “parole chiave” da tenere a mente, sempre e al di là della Biennale.
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