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    IL CINEMA DEI GIUSTI - COSTRUITO CON UN ATTENTO DOSAGGIO DI SCENE MADRI “BARRIERE - FENCES” DI DENZEL WASHINGTON E’ UN BUON FILM, DA VEDERE IN LINGUA ORIGINALE, POTREBBE ANCHE RUBARE QUALCHE OSCAR A “LA LA LAND” - QUANDO ENTRA IN SCENA VIOLA DAVIS NEL SUO RUOLO DI MADRE O DI MOGLIE TRADITA ALLA PUPELLA MAGGIO, SI IMPOSSESSA TOTALMENTE DEL FILM


     
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    Marco Giusti per Dagospia

     

    BARRIERE - FENCES BARRIERE - FENCES

    Le barriere dividono, proteggono, escludono. Ogni venerdì pomeriggio, giorno di paga, Troy Maxson torna a casa col suo amico del cuore, Bono, beve quel che può di gin nel cortiletto di casa, sotto gli occhi di Rose, sua moglie, si scontra con i figli, Lyons, che vuole diventare musicista, e Cory, che vuole giocare come lui a baseball.

     

    Ma si può giocare a baseball da campioni se si è neri nella Pittsburgh del 1950? Come se non bastasse, Troy cerca di sorvegliare il fratello Gabe, impazzito per le ferite di guerra, che crede di essere l’arcangelo Gabriele e aspetta che San Pietro gli apra le porte del Paradiso.

     

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    Ma cerca anche di proteggersi dai suoi scontri, che non vede solo metaforici, col Diavolo e con la Morte. Forse è per proteggersi da loro che Troy cerca di costruire nel cortiletto uno steccato (fences) che protegga la sua famiglia. Il vero protagonista di questo magistrale, anche se molto teatrale, Barriere – Fences, diretto e interpretato da Denzel Washington, forte di ben quattro nominations agli Oscar, film, sceneggiatura e i due protagonisti, Washington come Troy e Viola Davis come Rose, è il grandioso testo che il commediografo nero (ma di padre tedesco) August Wilson scrisse nel 1983 e che venne portato in scena prima nel 1987 e poi nel 2010 a Broadway proprio da Washington e dai suoi partner Viola Davis e Stephen Henderson, che ritroviamo anche nel film.

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    Lo stesso Wilson, prima della morte nel 2005, aveva scritto una sceneggiatura per il cinema, ma la condizione per qualsiasi trasposizione cinematografica era di avere un regista nero. Perché interamente neri sono l’intero cast, la storia, il linguaggio e l’ambientazione.

     

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    Questa spiega anche perché il gran lavoro che deve avere fatto sul testo un commediagrafo e sceneggiatore importante, ma bianco, come Tony Kushner non è riportato sui titoli di testa, e Kushner è accreditato solo come produttore esecutivo. Ma l’idea principale di Washington, come quella di Kushner, presumo, è di salvaguardare il testo di Wilson e il suo gran lavoro sulla costruzione teatrale di Fences, che già fece vincere ai due protagonisti due Tony Awards sette anni fa.

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    Non tutti si troveranno a proprio agio con le grandi metafore sportive con cui Troy spiega le sue scelte di vite e giustifica le proprie azioni, a cominciare dalla moglie Rose, che nei momenti di maggiore crisi, gli rimproverà proprio l’uso di queste metafore. Ma il baseball, e la condizione di giocatore nero che pensa di non aver avuto le stesse chance di un giocatore bianco nello sport, sono elementi fondamentali nella vita di Troy e nella sua lotta personale contro il mondo dei bianchi.

     

    Costruito con un attento dosaggio di scene madri che aprono i personaggi, soprattutto Troy, a complesse finestre sul passato, tutta la storia del suo scontro col padre, la fuga di casa a 14 anni, va detto che se è vero che gli attori cercano di salvaguardare il testo di Wilson, considerato un Eugene O’Neal del teatro nero, è ancor più vero che il testo permette loro grandi numeri di recitazione.

     

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    E se Denzel Washington e Stephen Henderson sono bravissimi, quando entra in scena Viola Davis nel suo ruolo di madre o di moglie tradita alla Pupella Maggio, si impossessa totalmente del film e mostra quel che in Suicide Squad ha dovuto nascondere. Buon film, da vedere assolutamente in edizione originale, potrebbe anche rubare qualche Oscar a La La Land. E giustamente. In sala da giovedì 24 febbraio.

     

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