Estratto dell'articolo di Roberta Scorranese per il “Corriere della Sera”
Solo trent’anni e già parlano di lei come una delle migliori pianiste.
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«Ma non ho solo trent’anni, ho già trent’anni. Siamo abituati a meravigliarci quando qualcuno al di sotto dei quaranta raggiunge successi ragguardevoli, ma dimentichiamo che i trentenni sono adulti. E poi sono una pianista: ci si consuma presto».
È faticoso?
«Le tournée certo, sono sfiancanti. Io faccio una novantina di date all’anno senza contare i festival, le esecuzioni singole o le registrazioni. La settimana scorsa ho scoperto di essere nella top ten dei musicisti più attivi e dunque tra quelli più “in viaggio”. Anche se sto cercando di ridurre, rallentare, passare più tempo a casa».
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Dica la verità: qualche volta l’essere donna è stato difficile nel suo campo?
«No. Però una cosa va detta: purtroppo per noi artiste resta ancora ben salda la valutazione, vecchissima, del “bella e brava”. Cioè, accanto al giudizio sull’esecuzione di un brano affiora sempre anche un giudizio estetico, che raddoppia l’ansia. Lei non sa quante volte, salendo su un palcoscenico prestigioso, capita di sentirsi inadeguati, non per la preparazione bensì per l’abito, il trucco, i capelli. Questa tensione aggiuntiva non esiste per un pianista uomo».
«Bella e brava» nel 2023 non si può sentire.
«Ma infatti. Esempio: qualche tempo fa Yuja Wang ha fatto una cosa pazzesca alla Carnegie Hall, cioè ha eseguito tutte e cinque le opere di Rachmaninov per piano e orchestra. Bene, ma lei lo sa qual è stata la cosa più commentata sia dai critici che sui social? Il suo cambio d’abito».
È vero, in alcune c’è una compiaciuta attenzione all’estetica, ma questo non può far passare in secondo piano l’esecuzione, è così?
«È così. È questo il punto. Inoltre, non tutti sanno che l’esecuzione dal vivo è un continuo e faticoso svuotarsi. Nel concerto, specie se parliamo di un recital, dai tutto. E sei solo davanti a una platea che sceglie di applaudire o fischiare.
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E vorrei aggiungere una cosa: se fosse stato per l’Italia io non sarei mai diventata una pianista.
Perché nel nostro Paese c’è una forte inclinazione alla critica di un connazionale e francamente non capisco perché. Viaggiando molto in tutto il mondo, non ho riscontrato questo atteggiamento in tanti altri Paesi. È un peccato, perché in Italia abbiamo musicisti straordinari».
E non solo di musica classica: ha guardato Sanremo?
«No, ero a Chicago».
Però i Måneskin li conosce.
«Altroché. Senta questa. Sei o sette anni fa io uscivo da una delle sedi dell’Accademia di Santa Cecilia, in via del Corso a Roma. Proprio lì davanti notai questo gruppo che si esibiva per strada. Mi fermai ad ascoltarli e pensai: ma guarda quanto sono bravi questi. Anni dopo li ho rivisti a Sanremo, erano i Måneskin».
In giro si dice che lei ami molto i Negramaro, salentini come lei.
«Eccome. Adoro i Negramaro e qualche giorno fa ho incontrato Andrea Mariano, il tastierista. Gli ho detto: guarda che ho già preso i biglietti per il concerto a Caracalla».
E se le dico Ludovico Einaudi?
«Mi viene in mente il ghiaccio».
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«Ma no, dico il ghiaccio dell’Oceano Artico dove ha suonato qualche tempo fa».
Tutto qui?
«Guardi, farò una confessione: io, come, penso, anche molti altri miei colleghi, non ascolto tanta musica. È la verità: quando passi la vita a suonare dal vivo, a registrare dischi, a provare o a studiare suonando, al di fuori del lavoro non puoi più nemmeno accendere il televisore, devi “ripulire le orecchie”. Oggi c’è troppa produzione, troppa richiesta, troppa scelta con le piattaforme di musica, troppi artisti, troppo tutto».
Alla fine quello che è il motore di tutta una carriera, l’amore per la musica, scivola in secondo piano, è così?
«Io faccio di tutto per preservarlo».
Ma non è che si fanno troppi concerti?
«Ma certo. Ci si sposta rapidamente. Prima per andare in America occorrevano settimane di navigazione, oggi ci si arriva in otto ore. Ci si muove da una parte all’altra e tutto si consuma in una serata, però la musica è altro. La musica è riflessione, studio, attenzione, anche errore, perché no.
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E c’è un altro paradosso: oggi la qualità tecnica di un concerto e soprattutto di una registrazione deve essere perfetta, altrimenti non passa i test del mercato. C’è una tecnologia raffinatissima che ci permette di avere un suono impensabile nel secolo scorso. E poi che succede? Se in quindici secondi — perché questo è il tempo di un reel sui social — non colpisci, ecco che scattano le critiche, le campagne denigratorie. Tanta maniacale ricerca della perfezione per un giudizio che oggi si formula in pochi attimi».
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Quanto è alto il rischio narcisismo per un pianista?
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«Altissimo. Gli applausi lusingano, la popolarità anche. Il punto è che non te ne rendi conto. Quando siamo entrati in lockdown mi sembrava di impazzire: la mia vita era sempre altrove, poi mi sono ritrovata a casa. Ma è servito: ho studiato, ho cercato nuove forme di concerto».
Lei ha sempre detto a sé stessa: mai un fidanzato pianista.
«E invece».
E invece sta con Massimo Spada, suo collega. Come vi siete conosciuti?
«Lui mi girava le pagine degli spartiti». Galeotto fu il libro. «E chi lo sfogliò».
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