Alberto Mattioli per “la Stampa”
In via Gorizia, che sarebbe poi la Main Street del paese, si incontrano un Internet point che dall’abbondanza di dieresi dell’insegna si direbbe turco, un macellaio arabo, un kebabbaro-pizzaiolo pure arabo, una lavanderia che fa anche il money transfer, un parrucchiere cinese, i «Sapori di Romania», un minimarket dello Sri Lanka, due bar gestiti da cinesi e un gatto, apolide per definizione.
BARANZATE
L’edicola di Davide Lombino, siciliano di seconda generazione, vende i giornali arabi e la rivista Jeune Afrique. Baranzate, prima periferia di Milano, non è solo uno dei soliti paesoni-dormitorio con quei nomi lombardi che non si capisce mai se siano un participio passato o la seconda persona plurale dell’imperativo presente. È anche il comune più multietnico d’Italia, benché si discuta se le nazionalità rappresentate siano attualmente 72 o 74. In ogni caso, moltissime.
Su 11.538 abitanti, gli stranieri sono il 30,6%, equamente divisi in quattro aree di provenienza: l’Europa dell’Est (albanesi, romeni, moldavi e così via), l’Asia (soprattutto cinesi e cingalesi), l’Africa (maghrebini ma anche molti neri, specie senegalesi) e l’America latina. Le istruzioni per la raccolta differenziata sono scritte in cinque lingue, cinese, arabo, inglese, spagnolo e italiano, «anche se io preferirei il milanese», dice il sindaco, Giuseppe Corbari, e non perché sia leghista (anzi, lista civica apartitica) «ma perché sono uno dei pochi che ancora lo parlano». Eppure amministra Babele.
Via Gorizia è la strada più multietnica d’Italia, tanto che ha dato il nome a un’emissione di Radio Popolare (Gorizia 59, perché all’epoca tante erano le nazionalità censite), è stata studiata a livello universitario ed è citata in un manuale di geografia.
nave italiana recupera immigrati
La sorpresa è che la convivenza, tutto sommato, funziona. «L’integrazione qui non la teorizziamo, la viviamo», dice Paolo Steffano, 49 anni, da dieci a Sant’Arialdo, la parrocchia della parte più multietnica del paese. Giura: «L’immigrazione non è necessariamente sinonimo di disastro».
Basta organizzarsi. Alle sue messe la prima lettura è in spagnolo o in cingalese e all’oratorio animatori e ragazzi musulmani pregano sì, ma prosternati verso la Mecca. Il solito irenismo? «Macché. Ho messo subito in chiaro che l’oratorio è un ambiente cristiano. Non c’è quel perbenismo finto buonista per cui nessuno mangia il maiale perché gli islamici non lo possono mangiare. Benissimo il panino con il salame. Però quando andiamo in campeggio non posso dire al ragazzino arabo: tu stai a casa perché sei musulmano. Infatti viene, non mangia il maiale e fa la sua preghiera. E per il resto si diverte moltissimo».
La Caritas organizza corsi serali d’italiano. Ma distribuisce anche molti aiuti. La crisi colpisce duro, «ma colpisce tutti, italiani compresi», dice il parroco. In effetti, girando per le strade del paese che, dispiace dirlo, è di rara bruttezza perfino per i non lieti standard della banlieue milanese, stupisce la massa di cartelli «affittasi» e «vendesi». «È un quartiere di passaggio - spiega don Paolo -, il turnover nelle abitazioni è forte.
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E poi, sì, c’è molta gente che ha perso il lavoro oppure lo ha ancora, ma viene pagata in ritardo. E allora non salda le spese di condominio e viene sfrattata». In effetti pare che i condomini siano il vero banco di prova dell’integrazione. Almeno secondo il sindaco: «Le abitudini e le usanze sono troppo diverse. Magari nello stesso palazzo convivono cinesi, brasiliani, senegalesi, arabi, africani e tre baranzatesi. Qualche incomprensione è inevitabile. Ma il vicino campo nomadi ci dà molti più problemi».
All’angolo fra via Gorizia e via Asiago (tutta la toponomastica locale è modello Grande Guerra) si incrociano un cinese, un arabo e un nero. Il commento di due anziani che assistono alla scena spiega tutto. Primo vecchietto: «Troppi immigrati, ci stanno invadendo». Secondo vecchietto: «Guarda che siamo immigrati anche noi». Questo è il punto. «Quando io andavo a scuola negli Anni Cinquanta - racconta Corbari - gli abitanti erano 800. Poi arrivò l’industria e, con l’industria, l’immigrazione meridionale. C’è stato un momento in cui a Baranzate lavoravano 40 mila persone, e tutte venivano da fuori».
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Insomma, qui tutti sono gli immigrati di qualcun altro. Forse per questo Baranzate è un modello. Il doposcuola «Braccio di ferro», orgoglio del parroco, ha 110 bambini di tutti i colori. L’associazione «La rotonda» aiuta chi ha bisogno, magari anche solo di attenzione. E capita di sentire un altro pensionato ancora gagliardo che entra al bar Jonny (sic) e saluta la barista cinese con un «Ciao, bella bionda!». Forse vivere insieme è possibile. Poi, certo, resta la domanda di fondo: quella che sta nascendo nelle tante Baranzate del nostro Paese è una nuova Italia o non è più l’Italia?