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Marco Giusti per Dagospia
Diciamo che questo “Dostoevskij”, presentato oggi nella sezione Berlinale Special, sei ore di durata, è il “Fargo” dei fratelli D’Innocenzo. E, per me, la loro opera più riuscita, film o serie poco importa, che vedremo da noi prima in sala i prossimi mesi e sicuramente a puntate su Sky. Ma non ci cascate. Anche se può avere la divisione in puntate, è pensato e girato esattamente come un lungo film.
E come film si è visto a Berlino a quattro anni dall’Orso D’Argento che vinsero proprio qui, in concorso, con la loro opera prima, “La terra dell’abbastanza”. Sei ore di cinema, fotografato da Matteo Cocco e montato da Walter Fasano, alla ricerca di un serial killer, chiamato Dostoevskij perché lascia ogni volta una lettera sul luogo del delitto, seguendo un poliziotto, l’Enzo Vitello di uno spettacolare Filippo Timi, che non sembra meno disturbato dell’assassino e che vediamo all’inizio del film, tentare il suicidio e scrivere anche lui una lettera di confessione e addio. Indirizzata al mondo, ma soprattutto alla figlia, Carlotta Gamba, tossica e in conflitto costante col padre.
Un film, a ben vedere, dove l’antagonista è invisibile e quindi si deve adattare alle ombre del protagonista pronto a sdoppiarsi nel suo demonio interiore piuttosto che a confrontarsi con i colleghi poliziotti, il vecchio amico Federico Valli e il giovane scalpitante Gabriel Montesi. Se l’idea, più che la struttura narrativa, della serie serve ai D’Innocenzo per costruire il crime, e quindi passare dal cinema d’autore alla Garrone al cinema di genere, avere obbligatoriamente un percorso da seguire, con la caccia al mostro, la costruzione dei singoli delitti e delle piste da seguire, i dialoghi con i colleghi, il rapporto con la figlia, porta nel loro tipo di cinema iper-autoriale un’ossatura narrativa più semplice, ma più solida e sperimentata rispetto a quella di alcuni loro film precedenti, come “Favolacce” e “America latina”.
E se il loro punto di forza rimane una sorta di sguardo post-pasoliniano sul degrado paesaggistico e abitativo dell’Italia fuori da ogni raccordo cittadino, in pratica slums dove la natura si confonde con abitazioni fatiscenti, a costruire una marginalità frutto di anni e stratificazioni diverse, i D’Innocenzo inseriscono in questi slums, in questo orrore da fotografia d’arte, personaggi e situazioni di genere, conflitti personali e famigliari e la caccia all’orrore che possiamo avere dentro di noi. In questo, allora, davvero dostoevskiano, il film non poteva che avere un livello recitativo più alto, come quello offerto da Filippo Timi, cacciatore in lotta col mondo alla ricerca di qualcosa che sembra aver visto fin troppo vicino.
Meno estetizzante però di quanto potessimo immaginare, e questo è un bene, il film esalta sì il genere come ossatura narrativa, ma non segue poi le quattro regolette del crime. E intanto ambienta il racconto in un’Italia fuori da ogni riconoscibilità regionalistica o da commedia, con una polizia che si chiama solo Polizia, fuori dalle città e da ogni tipo di prevedibilità da già visto. Alla fine, non solo le sei ore si seguono benissimo, i D’Innocenzo possono non piacere, ma non sono mai né banali né superficiali nella loro ricerca visiva e narrativa, e molto li aiuta l’attento montaggio di Walter Fasano, non solo offrono a Timi un grande ritorno al cinema di serie A, ma superano qui quella che in “America latina” poteva essere vista come una maniera, una ripetitività da film d’autore. Mi sembra tra i migliori film italiani di questo 2024.
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