Cristiana Lauro per Dagospia
CRISTIANA LAURO
Il vino non vuole essere compreso o interpretato. Vuole solo piacere, se possibile meravigliare, come la divina Marilyn Monroe. Perché si beve meno vino in Italia negli ultimi anni, mentre dilaga il consumo di birre più o meno artigianali e le multinazionali degli spiriti vanno a gonfie vele? Di alcol se ne consuma fin troppo, ma di bottiglie di vino se ne vedono sempre meno sulle nostre tavole. Di certo la crisi non ha aiutato, i prezzi dei vini sono saliti parecchio negli ultimi anni, ma qui da noi si può ancora bere bene a prezzi ragionevoli, cosa che non succede altrove in giro per nel mondo.
A Londra, Hong Kong, Shanghai, Pechino, Mosca, oppure negli Emirati Arabi - dove si consuma parecchio alcol - i ricarichi sulle carte dei vini sono improponibili, per i più inavvicinabili. Ma la questione nodale circa i consumi interni che non girano come dovrebbero, ruota intorno alla spinta di chi anziché divulgare, veicolare la diffusione, la commercializzazione, ha pensato di elevare il discorso a una nicchia intellettuale ed esclusiva. Attraverso l'applicazione di un dizionario assurdo, impossibile da decodificare e per mezzo di un linguaggio che ha fatto di tutto per non farsi capire, l'aristocrazia del pensiero sul vino fa ridere i polli.
VINO ROSSO
Ora che è finalmente uscita di scena la locuzione "vino da meditazione" e i vini cerebrali sono un lontano ricordo, occorre pensare alla fruibilità, ovvero comprensibilità attraverso la piacevolezza e l'armonia, ad esempio, che portano bevibilità. Più semplice di quanto si possa immaginare: è il bicchiere che parla e un bicchiere che finisce ha molti più argomenti di qualsiasi confraternita di segaioli del vino. Ci siamo dimenticati della parola frutto, alla ricerca del cardamomo nel bicchiere, del cuoio e della sella di cavallo, della mineralità, delle acidità spiccate, manifesto squilibrio perché un vino buono non ha cuspidi acide, ma armonia.
D'altra parte la parola "acido" rivolta a una persona non rientra nel registro degli ossequi, ci sarà un perché. Ossidazioni, macerazioni, la croccantezza e altri termini evocativi altrove, non qui e stavolta, hanno allontanato il pubblico. Eppure il vino si fa con l'uva e l'uva è frutta, figlia di un territorio, di una zona, perché vestirla d'altro e non chiamarla col suo nome?
VINO - LA CANTINA
Tutto questo non significa confidare nell'immediata o futura produzione di vini ruffiani, o auspicare la diffusione di un gusto sempliciotto che accetta il mediocre scambiandolo per sufficiente. Però il vino, che è un prodotto culturale per mano dell'uomo che trasforma l'uva attraverso la tecnica e la tecnologia, deve liberarsi dalle pippe mentali intorno al proprio ombelico, rivolte a una nicchia che esclude. L'ombelico non ha orecchie per sentire, cervello per capire, uso della parola per diffondere e tutto ciò che non ha attitudini, né talenti: non serve a un cazzo.
BIRRA E VINO
Se non si parla agli altri con l'intento di farsi capire anziché di sfoggiare quattro scampoli di erudizione, se non si sa fare divulgazione - gesto che raccoglie, unisce e conduce, invero educa - il vino resterà un alimento con medio-scarso consumo di massa. Non sarà mai presente su tutte le tavole e infatti non lo è.
Gli alimenti destinati a pochi si distinguono per il prezzo, non in quanto incomprensibili, indecifrabili. Si misurano con la portata del portafoglio, non col grado di cultura o il QI di chi li consuma. Il vino dovrebbe smettere una volta per tutte di essere raccontato come un punto di arrivo intellettuale. E' un prodotto, un alimento, chiede di essere bevuto, non capito o interpretato, vuole solo piacere, se possibile meravigliare. Come la divina Marilyn.
CRISTIANA LAURO