Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano”
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E dallo stinco di santo arrivammo allo stinco di fascio. L' ossessione per il Mostro Nero è diventata talmente accecante da indurre cercare tracce di fascismo ovunque, cogliendo in ogni segno, frase o simbolo un' allusione occulta al regime, e facendo di quelli possibili corpi del reato. O meglio, reati iscritti sul corpo, sotto la veste di tatuaggi o icone da indumenti.
L' ultima vittima di questa psicosi di massa, di questa caccia collettiva al presunto nostalgico o collaborazionista, si chiama Cristiano Biraghi, un onesto terzino dell' Inter che ha vestito la maglia della Nazionale e due giorni fa si è esibito, non proprio in maniera gloriosa, nella sfida persa in casa contro il Barcellona. Oggetto degli attacchi veementi dei social, tuttavia, non sono state le sue prestazioni sportive ma un parastinchi, mostrato durante la partita, recante una scritta terminante in «Victis» (verosimilmente si tratta del motto Vae Victis!, «Guai ai vinti»), accompagnata dall' elmo di un legionario su sfondo tricolore. Apriti cielo.
Sui social si è scatenato l' attacco al difensore al suon di «Tanto scarso quanto fascista», «Calcio balilla», e appelli tipo «Vendete 'sto pagliaccio», «Mi auguro che Biraghi non rimetta mai più piede alla Fiorentina» (squadra che lo ha prestato all' Inter), o inviti a escluderlo dal mondo del calcio: «Pessimi, indegni i parastinchi fascisti di Biraghi. Merita di uscire da ogni competizione, perché in altri campionati sarebbe venduto o fuori rosa».
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Anche giornaloni come Repubblica danno corda ai leoni antifascisti da tastiera, parlando a proposito di «scritte e simboli che richiamano il fascismo». E, come ulteriore prova della simpatia di Biraghi per il Duce e le camicie nere (più che per Conte e le maglie nerazzurre), si cita la grave colpa di avere un grosso tatuaggio sul petto che recita a sua volta «Vae victis».
IL SACCO DI ROMA Peccato tuttavia che né quelle scritte né quei simboli abbiano alcunché a che fare col fascismo. Il detto «Vae victis» risale al comandante dei Galli Brenno che durante il sacco di Roma del 390 a.C. impose agli sconfitti le condizioni della resa. Pronunciando «Guai ai vinti», appunto. Quel motto venne poi evocato addirittura da Benedetto Croce (il filosofo liberale Croce, non uno squadrista nero) nel 1947 per commentare l' iniquità del trattato di Pace di Parigi che dimostrava come l' Italia fosse uscita sconfitta dalla guerra.
Non vi è traccia invece dell' uso di quell' espressione durante il fascismo, anche perché il regime coltivava il mito della vittoria e non si autocommiserava certo per la sconfitta. Tanto meno quell' espressione veniva usata per maramaldeggiare sul nemico, con un tono vagamente minatorio tipo «Guai a te, che hai perso».
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PARANOIA Ma la paranoia è tale che Repubblica ravvisa indizi di devozione al Duce perfino nel carattere usato per quella scritta, il font, parlando di «caratteri ormai associati al fascismo». Associati da chi? Boh. Perfino l' immagine presente sul parastinchi di Biraghi, l' elmo di un oplita o di un legionario, sempre secondo lo stesso giornale «richiama la simbologia di estrema destra»: in realtà rappresenta una citazione del film Trecento sugli eroi spartani guidati da Leonida e una riproduzione del logo usato dalla scuola Legio' s Team di Alessio Sakara, campione di arti marziali e di solidarietà.
Come dite, Biraghi ha aggiunto l' immagine di un tricolore? Ah be', allora deve essere un fascista se ha osato omaggiare la bandiera italiana Orsù, non siate ridicoli, non trasformate un terzino sinistro in un' icona di estrema destra. Ma la sindrome di ricondurre tutto al pericolo fascista ormai intacca anche altre espressioni latine o desunte dal latino e giudicate pericolose. Si pensi al dannunziano Memento audere semper («Ricordati di osare sempre»), usato nel 1918 quando il fascismo ancora non esisteva, o al Quis contra nos? (da cui il «con noi o contro di noi»), che in realtà è tratto da una lettera di San Paolo ai Romani.
Il latinorum in sé diventa pericoloso e ragione buona per essere tacciati di apologia di fascismo. Viceversa, tanto per restare in ambito pallonaro, sui corpi e gli abiti dei calciatori possono attecchire senza problemi immagini e scritte di Che Guevara: da Higuain, che esibisce il suo «Hasta la victoria siempre» a Maradona e Miccoli, che vantano tatuaggi del Che, fino a Cristiano Lucarelli che ne mostrò il volto su una maglietta. Ma nessuno si è mai indignato per quelli.
Vae nobis, guai a noi, verrebbe da dire, se non fosse che potremmo essere sospettati di cripto-fascismo.
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