Massimo Gaggi per il ''Corriere della Sera''
L' arma nucleare segreta della quale il presidente non avrebbe mai dovuto parlare, la necessità di impegnarsi contro il razzismo liquidata da Trump con una battuta, i servizi segreti per i quali Vladimir Putin potrebbe avere in mano qualcosa per condizionare il leader americano, i suoi giudizi sprezzanti sui generali «fighette» che si preoccupano più del rispetto delle alleanze che delle relazioni commerciali, con l' ex ministro della Difesa, James Mattis, che lo liquida con un giudizio perentorio: «Trump è inadatto al ruolo che ricopre e non ha una bussola morale».
BOB WOODWARD
Rage , il nuovo libro di Bob Woodward sulla Casa Bianca anticipato due giorni fa alla stampa Usa, sta mettendo in seria difficoltà un presidente che, pure, ha collaborato al lavoro del giornalista del Watergate, dandogli ben 18 interviste dal dicembre 2019 al giugno scorso. La questione più rilevante, quella riferita ieri dal Corriere , riguarda l' ammissione di Trump di aver saputo fin dalla fine di gennaio della gravità dell' epidemia e di aver tenuto all' oscuro gli americani, anzi minimizzando, «per non creare panico».
Le registrazioni dei colloqui, soprattutto quello del 7 febbraio, inchiodano Trump alle sue responsabilità: avesse agito con più vigore per tempo mettendo in guardia i cittadini e imponendo l' uso delle mascherine, ci sarebbero state meno vittime. Ma anche l'«eroe» della storia, il giornalista che l' ha stanato, non vive giorni da marcia trionfale.
BOB WOODWARD RAGE
Anzi, la pubblicazione delle anticipazioni gli ha procurato qualche livido: molti, soprattutto suoi colleghi, gli hanno chiesto perché, se già sei mesi fa sapeva che Trump stava mentendo su «questioni di vita e di morte», non ha denunciato la cosa subito.
Non sono solo mugugni di colleghi più o meno invidiosi: a considerare discutibile sul piano etico il comportamento di Woodward ci sono anche autorità come David Boardman, preside della facoltà di giornalismo della Temple University, mentre la discussione sul caso è viva anche sulle pagine del suo giornale, il Washington Post .
Il reporter che quasi mezzo secolo fa costrinse alle dimissioni il presidente Nixon con l' inchiesta (realizzata insieme a Carl Bernstein) sul Watergate, si difende sostenendo che solo a maggio si è reso conto delle gravità delle cose che Trump gli aveva confessato a febbraio: in inverno Bob, abituato a un Trump che straparla, non aveva capito che stavolta il presidente aveva informazioni di fonti certe e autorevoli. Ma, soprattutto, Woodward rivendica il suo diritto di «scrivere la storia».
Bob Woodward e Carl Bernstein
Non partecipa più alla produzione dell' informazione quotidiana, ma vuole offrire ai lettori «il quadro più completo possibile della realtà. E glielo dò molto prima delle elezioni in modo da dare loro il tempo di farsi un giudizio: è il meglio che mi sento di fare».
Il ragionamento non è infondato, ma non convince molti sul fronte progressista: Woodward doveva denunciare quando ha saputo. Paradossalmente questo ritardo viene sfruttato anche da Trump per cercare di uscire dall' angolo nel quale il libro l' ha cacciato: «Se avevo detto cose così gravi perché non farlo venire fuori subito?».